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Spacciatori di cultura al servizio della comunità

Una Portineria di comunità ideata da Ricp, la Rete italiana di cultura popolare, per promuovere il welfare di prossimità nella Città di Torino e favorire lo scambio tra bisogni e competenze.

di Marianna Iacoviello

 

Lo Spaccio di cultura – Portineria di comunità è un progetto di innovazione sociale nato per rafforzare la rete di servizi e solidarietà del quartiere torinese di Porta Palazzo facendo rivivere una ex edicola-chiosco in Piazza della Repubblica. Un punto informativo per le attività culturali e turistiche della città ma soprattutto un presidio costante per tutti gli abitanti che cerca di risolvere i problemi della quotidianità del quartiere offrendo servizi quali baby-sitting, supporto tecnologico, traduzioni, pulizie, ricezione pacchi e riparazioni artigianali a un prezzo contenuto o a seguito della sottoscrizione di un abbonamento.
Un’iniziativa che ha anche una forte identità culturale in quanto molti gruppi di cittadinanza attiva si incontrano periodicamente per progettare insieme azioni concrete a supporto di chi vive in condizioni di fragilità. Un nuovo modello di società più solidale ed equilibrata che ha una forte capacità di aggregazione e che facilita l’interazione tra diversi soggetti attivando un circuito virtuoso che crea un impatto notevole per la comunità.

Ne abbiamo parlato con Antonio Damasco, direttore di Ricp, che ha chiuso domenica il Festival delle Culture Popolari in cui sono state presentate le prossime portinerie in apertura sul territorio.

Lo Spaccio di cultura – Portineria di comunità è stato aperto a luglio 2020, periodo in cui le relazioni si sono costruite in piazze virtuali e a porte chiuse. Quanto e come questa emergenza ha inciso sull’attività svolta rispetto a quella inizialmente progettata?

«Grazie a un permesso della protezione civile, lo Spaccio di cultura ha aperto ufficialmente nel luglio 2020 ma in realtà è stato attivo durante l’intero periodo pandemico. Da quando le serrande della ex edicola sono state alzate, è nato un presidio che ci ha permesso di raggiungere quelle solitudini e richieste da parte delle persone più in difficoltà. Oggi è un punto di riferimento sociale e culturale, se vogliamo usare ancora i due termini in maniera separata, che cuce relazioni e risana fratture, accoglie i conflitti e dialoga con tutti i servizi pubblici del territorio. Le fragilità dopo il Covid sono dentro ogni settore, non sono solo più nelle singole persone. Questi luoghi hanno oggi un ruolo fondamentale e devono domandarsi quotidianamente il motivo della loro esistenza. È questo il motivo che ci ha spinto a moltiplicare la portata del progetto per cercare di disegnare una rete dei presidi leggeri replicando l’esperienza torinese in altri territori».

Il progetto ha ricevuto un cofinanziamento dall’Unione Europea – Fondi Strutturali di Investimento Europei – Programma Operativo Città Metropolitane 2014-2020 in partenariato con Ufficio Pastorale Migranti e NES – Nessuno è straniero. In che modo riuscite a essere catalizzatori di bisogni, necessità e competenze per la comunità?
«La Rete italiana di cultura popolare opera sul territorio con un metodo di indagine e attivazione di comunità attraverso lo strumento del Portale dei saperi, piattaforma digitale che utilizza il dialogo e l’autonarrazione come approccio relazionale con le persone che abitano, lavorano e orbitano in un luogo. Lo Spaccio di cultura sorge in un’area della città su cui abbiamo lavorato negli anni precedenti coinvolgendo la cittadinanza attiva, gli enti del Terzo settore, commercianti e artigiani. Questo scambio continuo ci ha permesso di comprendere i bisogni e le necessità delle arre cittadine comprese tra Porta Palazzo, Borgo Dora e il centro di Torino, oltre a rispondere ai piccoli bisogni quotidiani di oltre 200 abitanti con servizi di prossimità. Siamo sempre in ascolto per cogliere le continue evoluzioni e i nuovi flussi informativi e cerchiamo di rimettere in discussione i bisogni di questa comunità e strutturare nuove modalità per raggiungere coloro che sono più in difficoltà nell’accesso ai servizi primari».

In un contesto sempre più complesso e dinamico, la coprogettazione diventa uno strumento utile di connessione tra il pubblico e il Terzo settore. Quanto questo strumento sta riuscendo a creare valore alle vostre attività? E quali sono le sfide che questo processo partecipativo deve affrontare per la costruzione di un welfare di comunità?
«
La coprogettazione è il processo che ci ha permesso di costruire reti e relazioni generative negli ultimi nove anni. Ultimamente, visto il periodo storico complesso in cui siamo ancora immersi, l’attività si è svolta in parte online, ma abbiamo approfittato soprattutto della piazza antistante lo Spaccio di cultura che ha reso tangibile e reale un’idea ed è preziosamente indispensabile per creare connessioni. In un futuro non troppo lontano il modello partecipativo non sarà più una scelta ma l’unica strada da percorrere per ragionare sin dal principio sui possibili criteri di sostenibilità e riuscire a intercettare bisogni e necessità mutevoli oltre che valorizzare le opportune competenze. Ognuno naturalmente deve fare la propria parte in maniera coordinata e sussidiaria alle funzioni degli enti pubblici».

Pensando al futuro quali sono le proposte che avete intenzione di sviluppare e quali azioni pensate di mettere in atto per riuscire a finanziarle?
«Cerchiamo di valorizzare il capitale umano e di partire dalle singole persone per attivare la comunità. Stiamo lavorando a un progetto all’interno di un istituto scolastico che prevede anche il coinvolgimento dei ragazzi. L’idea è quella di rigenerare le sponde della Dora e rendere accessibile la scuola alla cittadinanza trasformandola in un luogo aperto che collega un giardino esterno e una parte interna. Intanto il Portale dei saperi si sta diffondendo in altre regioni italiane: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Calabria, Sicilia. Tutto ciò è sostenibile grazie alla partecipazione a bandi europei, nazionali, regionali e locali e all’integrazione tra finanziamenti di fondazioni, imprese e individui che ci permette di sviluppare azioni a medio-lungo termine».

Come immaginate l’evoluzione del vostro progetto comunità del dono e la trasmissione del concetto di reciprocità?
«La comunità del dono è costantemente attiva e mette in relazione associazioni e famiglie che entrano a far parte di un processo di supporto, orientamento e informazioni coordinato dalla Portineria e connesso a una rete di soggetti qualificati. Sul concetto di reciprocità bisogna uscire dalla dicotomia ricevo/restituisco, ma entrare nell’idea della partecipazione, in quanto, come diceva Don Lorenzo Milani, non c’è nulla che crea maggiore disuguaglianza che “fare parti uguali fra diseguali”».

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“La nostra mission consiste nel dotare i lettori di un magazine in grado di decifrare il vasto mondo della gestione d’impresa grazie a contenuti d’eccezione e alla collaborazione con enti pubblici e privati.”

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