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Recovery senza Terzo settore? Impensabile!

Zamagni

Il Codice del Terzo settore non è mai decollato per l’assenza di decreti attuativi. Una dimenticanza colpevole, a cui occorrerà porre rimedio quanto prima. Anche perché lo richiede l’Europa e, soprattutto, il buon senso. Intervista a Stefano Zamagni.

di Alessandro Battaglia Parodi

Nel nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza il Terzo settore è stato citato solo qualche volta e anche senza troppa convinzione. Eppure la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, oltre ai temi del green deal e del futuro digitale, ha indicato nell’economia sociale e nel settore non profit uno dei cardini fondamentali per il rilancio dello sviluppo europeo. Come mai questa dimenticanza? In attesa della riscrittura del Pnrr, chiediamo lumi a Stefano Zamagni, docente di Economia all’Università di Bologna e volto noto nel mondo del non profit, nonché presidente dell’Agenzia per il Terzo Settore dal 2007 al 2012.


Professore, il Terzo settore è implicato in almeno quattro delle sei gambe del Recovery Plan europeo, vale a dire nella transizione ecologica, nella salute, nella digitalizzazione, nelle infrastrutture per la mobilità sostenibile, nell’istruzione e nell’inclusione e coesione sociale. Ma nella bozza del nostro documento nazionale non se trova quasi traccia. Perché questa dimenticanza?

«Non è che si siano dimenticati, è una scelta voluta. Perché, salvo rare eccezioni, tutte le forze politiche di destra, sinistra, centro, sono da sempre contro il Terzo settore, tutte. Questa è stata una scelta precisa, dal momento che le forze politiche italiane hanno paura di cedere quote di potere ai soggetti del Terzo settore. E anche perché in Italia la cultura della sussidiarietà non ha ancora attecchito».


Ma tre anni fa non c’è stata la tanto attesa riforma del Terzo settore, o sbaglio?

«Certamente, c’è stata. Si è modificato l’articolo 118 della Costituzione introducendo il principio di sussidiarietà, si è portata avanti la legge di riforma creando il Codice del Terzo settore e altre piccole cose e soprattutto facendo credere che si volesse veramente voltare pagina. Ma in effetti non è successo nulla. Il Codice è stato di fatto boicottato durante i due governi Conte, e i decreti attuativi non sono stati mai emanati. La stessa cosa è successa per il principio di sussidiarietà introdotto nel 2001 dalla modifica dell’art. 118 della Carta Costituzionale, che ha avuto però come effetto una diminuzione della sussidiarietà. Ce n’era molto più prima di adesso. Questo è stato l’esito di tutte queste bellissime iniziative, che sono di fatto abortite. Solo che la gente non riesce a capirlo, a cominciare dai giornalisti e anche da una parte di esperti. Tutti pensano che sia dipeso da una mancanza di fondi, da circostanze esterne o da semplici storture della macchina legislativo-burocratica».


Quindi è stata una falsa partenza, se non proprio una menzogna?

«Il punto è che non si vuole accettare una sorta di condivisione di potere. Cioè non ci si vuole allontanare dal modello Lib-Lab di orientamento liberal socialista che è basato su Stato e mercato. Quelli di sinistra danno più enfasi allo Stato, quelli di destra al mercato. Ma sono entrambi d’accordo nel non voler modificare l’attuale assetto istituzionale. Mentre invece occorrerebbe andare verso il cosiddetto “modello tripolare”, quello che armonizza Stato, mercato e società civile. E è proprio questo modello che non piace. Perché non si vuole una reale condivisione del potere».


Negli ultimi anni c’è stata una maggior presa di coscienza del settore rispetto al ruolo svolto, alla responsabilità sociale e anche agli obblighi, come quelli sulla trasparenza della rendicontazione. E c’è stata anche più attenzione alle agevolazioni fiscali e alle fonti di sostentamento. È come se un’associazione o una cooperativa, ora diventate imprese sociali, dovessero iniziare a procacciarsi da sole le opportunità di finanziamento. È una sensazione o c’è del vero?

«Il discorso qui è di altro tipo: che esista all’interno del Terzo settore un ritardo culturale, è fuori di dubbio. Ma questo perché? Perché dal dopoguerra a oggi questi enti sono sempre stati trattati in maniera paternalistica, sotto l’ala protettrice dell’ente pubblico. Il quale garantiva risorse certe in cambio del fatto che questi piccoli enti accettassero il ruolo di operatori sociali, cioè di chi esegue con diligenza e lealtà i progetti che vengono assegnati a fronte di un finanziamento. Quindi c’è questo ritardo culturale, indubbiamente. E se noi confrontiamo l’alta dirigenza del Terzo settore con l’alta dirigenza dell’impresa, emerge subito la distanza incolmabile tra questi due mondi. Perché non si è mai voluto fare un investimento culturale. Per cui oggi abbiamo dirigenti che sono persone buonissime e validissime, ottimi esecutori e operatori, ma che non sono veri “imprenditori” sociali. Per diventare imprenditori occorrono infatti skills e capacità che vanno formate».


Insomma, non si è mai voluto spingere nella formazione imprenditoriale del Terzo settore…

«Ecco il punto. Oggi abbiamo da un lato requisiti già importanti, ma dall’altro non si sono dotati gli enti del Terzo settore di strumenti adeguati per il proprio sostentamento. Nel capo IV del codice del Terzo settore dal titolo “Strumenti di finanza sociale” si prevedono nuove forme di finanziamento, ma questi strumenti non hanno luogo perché, ancora dopo due anni e mezzo, il decreto attuativo non è stato formalizzato. Quindi è chiaro che oggi questi soggetti si trovino tra l’incudine e il martello, perché non hanno la forza, mi correggo, non hanno la possibilità giuridica di rivolgersi alle fonti di finanziamento. Con gli Enti locali che, al tempo stesso, hanno decurtato gli approvvigionamenti per le note ragioni di ristrettezze dovute alla crisi della finanza pubblica».


Intanto però sembra quasi di sentire il vecchio, macabro adagio del mercato: chi non è in grado di reggere le sfide della concorrenza, perisca pure…

«Il pericolo infatti c’è, ed è anche molto forte. Perché da un lato queste realtà non ricevono più risorse dalla pubblica amministrazione, dall’altra non possono attingerne da sole dal mercato. Il giorno in cui il famoso decreto attuativo sarà emanato, allora gli Enti del Terzo settore potranno emettere le obbligazioni sociali, i titoli di solidarietà e altre formule già previste dalla legge. A quel punto le varie imprese sociali, le associazioni e le cooperative potranno ottenere tanti di quei soldi che neanche si immaginano. Ora c’è invece l’immobilità, il grosso dei finanziamenti è bloccato dall’assenza di un semplice decreto attuativo. Questo è!».


E con il nuovo Governo ci saranno questi benedetti decreti attuativi?

«Ne sarei quasi certo, a giudicare dalle prime dichiarazioni di Draghi. Ovviamente il Governo potrebbe trovare delle difficoltà in corso d’opera, però è evidente che contrastarlo su questo fronte sarà difficile perché innanzitutto la legge esiste già e deve solo essere completata dai decreti attuativi, e in secondo luogo perché il Governo ha solo da guadagnare a non sperperare risorse dal bilancio dello Stato per fare opere che altrimenti costerebbero di più. Insomma, se non si procede verso questa direzione è come darsi la zappa sui piedi. Questo è un argomento molto forte, voglio vedere chi avrà il coraggio di contrastare una presa di posizione del genere».


Come cambia il rapporto tra Pubblico e Terzo Settore? Alcuni sostengono che è come se nascesse un Quarto settore, in cui l’associazione è anche un po’ impresa che crea benessere per la comunità, e al contempo le aziende si fanno ibride e creano benefici in ambito sociale e ambientale.

«Ecco, questa è una sciocchezza che non si può sentire, tipica di chi non sa nulla di queste cose e vuole solo sparare slogan a effetto. Questo punto è già stato regolato dall’articolo 55 del codice del Terzo settore, il quale articolo è stato poi ulteriormente rafforzato dalla sentenza 131 della Corte Costituzionale del giugno 2020. Per farla breve, l’art. 55 parla sostanzialmente di “coprogettazione”, vale a dire che nell’implementazione delle politiche di area sociale, di welfare ecc., l’ente pubblico e gli enti del Terzo settore “devono” coprogettare. E qui si torna al discorso di partenza, quando parlavo della paura di perdere quote di potere. Perché un conto è decidere da soli, un altro conto è che lo si faccia insieme. È chiaro che certi altarini verrebbero smascherati, perché nella “stanza dei bottoni” ci deve essere il rappresentante dell’ente pubblico e anche il rappresentante del Terzo settore. Cosa che è già contemplata dalla normativa. Basterebbe chiedere di dare attuazione alla legge già esistente. Questa sentenza della Corte Costituzionale ha una portata rivoluzionaria perché, se non si attuerà la coprogettazione, chiunque potrebbe denunciare l’ente pubblico di non ottemperare a un obbligo previsto dalla legge. E vincerebbe sicuramente. Come ha vinto in questa sentenza 131 la Regione Umbria nei confronti del Governo Nazionale. Faccio notare che chi ha emesso la sentenza è stata la presidente Marta Cartabia, che oggi è ministro della Giustizia».


Quindi c’è da attendersi una riscrittura profonda del Recovery?

«Non la chiamerei una riscrittura, ma una vera e propria “scrittura”. Quello che abbiamo conosciuto nei mesi scorsi, ben in tre versioni, non era un piano vero ma una semplice lista di buone intenzioni. La vera scrittura comincia ora!»

 

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