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Un Plan più equo, pensando alle donne

Cecilia Guerra

La bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza è in discussione al Parlamento italiano. Tra i grandi obiettivi posti da Bruxelles c’è anche il superamento del divario economico di genere. Ne parliamo con Cecilia Guerra, sottosegretaria al Mes.

di Roberta Morosini

I dati sulla disoccupazione femminile sono drammatici. E i problemi posti sul tavolo per ridurre il divario di genere sono tantissimi: defiscalizzazione, decontribuzione, servizi utili, dati disaggregati, studi di settore, valutazioni d’impatto qualitative e quantitative: come sarà possibile muoversi nella direzione giusta? Di tutto questo discutiamo con Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Nel 2020 abbiamo perso 444mila posti di lavoro. Nel solo mese di dicembre siamo arrivati a 101mila, di cui 99mila occupati da donne. Non pensa che le misure adottate dal Governo su blocco dei licenziamenti e cassa integrazione tutelino in maniera insufficiente il segmento più precario, quello delle donne?

«Più che all’insufficienza delle misure del Governo dobbiamo guardare alle caratteristiche pregresse e croniche del mercato del lavoro nel quale è generalmente occupato il segmento femminile. Abbiamo assistito a una perdita così significativa di posti di lavoro da parte di donne per una ragione che attiene fondamentalmente a un meccanismo di segregazione. Le donne per il 70% lavorano in soli sette settori su ventuno, tra i quali rientrano il commercio, il turismo e l’alberghiero, che sono i più colpiti dalla crisi pandemica. Questo è un primo punto».

E il secondo?

«Il secondo riguarda il fatto che i contratti di questi settori sono spesso a tempo, precari, frammentati, ridotti dal punto di vista temporale, e quindi sono contratti che il Governo non è riuscito a tutelare con le misure messe in atto, come il blocco dei licenziamenti, o è riuscito a tutelare solo in parte con altre, come gli ammortizzatori sociali, che risultano insufficienti perché appunto sono legati a periodi di lavoro limitati e possono fornire coperture limitate. Si tratta, del resto, di condizioni in buona parte analoghe a quelle di altri Paesi europei. C’è poi però un elemento di difficoltà ulteriore che riguarda nello specifico il caso italiano ed è il diffuso utilizzo nel segmento femminile del mercato del lavoro di contratti part-time, nella maggior parte dei casi involontario. Qui, anche quando la tutela c’è stata, ad esempio con la cassa integrazione, il fatto di avere già di base salari piuttosto contenuti ha posto e pone quelle donne in una situazione molto difficoltosa, che neppure appare nei dati drammatici di cui ho parlato prima».

Il Pnrr deve prevedere, come richiesto da Bruxelles, riforme su fisco e lavoro. Come crede possano attenuare l’emorragia di lavoro femminile e sostenere l’imprenditoria rosa?

«Per quanto riguarda il fisco, io sono contraria all’idea che si possa arrivare a un sostegno dell’occupazione femminile attraverso strumenti di decontribuzione o defiscalizzazione, perché questi si sono mostrati insufficienti, inadatti e persino pericolosi. L’esperienza italiana, sulla quale ormai possediamo dati pluriennali, in particolare nel Mezzogiorno, dimostra che questi strumenti hanno determinato un ulteriore fenomeno di segregazione, perché hanno reso possibile, abbassando il costo del lavoro, l’attivazione di lavori ancora più dequalificati in settori che riguardano molto spesso i servizi e i servizi alla persona, dove i salari sono già piuttosto contenuti. Penso quindi che puntare sulla decontribuzione significhi non avere capito qual è la vera difficoltà del lavoro femminile, che è quella, per le donne, di avere un accesso limitato al mondo del lavoro, principalmente a causa dell’onere spropositato che grava quasi interamente sulle loro spalle per ciò che concerne il lavoro di cura di bambini, anziani e disabili. Questo significa avere una contrazione del tempo a disposizione da dedicare al lavoro retribuito e molto spesso la necessità di trovare lavori molto vicini a casa, con orari ridotti».

In sostanza, come si può intervenire?

«Se penso a un intervento complessivo, sotto il profilo del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma anche del mercato del lavoro, il punto essenziale è intervenire sulla possibilità di conciliazione dei tempi tra il lavoro di cura e il lavoro formale di entrambi i generi, l’uomo e la donna, il padre e la madre. In primo luogo attraverso la diffusione di servizi quali asili nido, centri per anziani, tempi di scuola flessibili con pre e postscuola che possano favorire e seguire gli orari flessibili a oggi richiesti sul mercato del lavoro. Oltre a questo, occorre un investimento culturale nella condivisione della cura di bambini, anziani, disabili, ma anche del lavoro domestico. Il lavoro di cura deve arrivare ad essere equamente distribuito fra i due generi. Per quanto riguarda gli interventi sulla disciplina del lavoro, sicuramente l’aspetto dei congedi è centrale. Bisognerebbe poter rafforzare lo strumento del congedo, in un’ottica di maggiore parità, con un aumento della quota di copertura e una estensione significativa di quello di paternità, rendendolo obbligatorio, in modo che la condivisione del lavoro di cura possa iniziare da subito, fin dai primi giorni di vita del bambino. Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza ci sono due grandi pilastri di investimento: digitale e transizione ecologica, che sono settori in cui prevalgono l’occupazione maschile e le conoscenze formative cosiddette “Stem” (Science, Technology, Engineering and Mathematics, ndr), solitamente e tradizionalmente a trazione maschile, malgrado gli investimenti fatti a livello culturale, affinché diventino appannaggio anche femminile».

E come si può invertire questa tendenza ed evitare che le risorse del Pnrr finiscano per rafforzarla aumentando ulteriormente il divario occupazionale?

«In primo luogo bisogna dire che è vero che una parte rilevante, aggiungo giustamente, del Pnrr è dedicata, per vincoli accettati comunitariamente, alla transizione tecnologica e a quella ecologica, ma è anche vero che resta una consistente parte da dedicare al terzo pilastro, che è quello della coesione sociale. In Italia abbiamo ancora un marcato deficit nelle infrastrutture sociali, e indirizzare, come da programma, le risorse del piano a queste infrastrutture, come ad esempio gli asili nido, i servizi per le persone non autosufficienti, per le gravi disabilità o altri servizi per minori, ha anche una funzione di riequilibrio sotto il profilo di genere, perché si tratta di servizi che in gran parte attivano manodopera femminile. Al contempo, una parte delle risorse del Pnrr sono indirizzate anche a cercare di favorire la scelta formativa delle ragazze, partendo addirittura dall’infanzia, verso le materie Stem, rispetto alle quali la partecipazione femminile è a oggi contenuta. Bisogna però accompagnare questo tipo di reindirizzo con modifiche del mercato del lavoro, che ancora una volta richiedono di superare alcuni stereotipi, poiché quello che noi vediamo nelle professioni in generale e anche in quelle dedicate alle discipline Stem, è che esiste un fortissimo gap di genere nella retribuzione, legato all’età: si parte più uguali e si diventa via via sempre più disuguali».

Entriamo quindi in un ambito prettamente storico-culturale…

«Certamente. Esiste un vero e proprio impedimento alla carriera femminile, il cosiddetto “soffitto di cristallo”, ancora più evidente in alcune specifiche professioni. Pensiamo per esempio ai grandi studi di avvocati associati nei quali spesso gli uomini fanno un tipo di percorso e alle donne sono invece affidate le monocommittenze, mascherando nei fatti con il lavoro autonomo un lavoro dipendente. Questo è un tema molto rilevante e deve essere affrontato con tutele adeguate, anche al fine di rendere più appetibile, per le donne, uno sbocco lavorativo di questo tipo.

Torniamo al Pnrr, o meglio alla bozza presentata il 12 gennaio 2021. È soddisfatta di come viene trattato il lavoro femminile?

«Quello di fare una valutazione dell’impatto di genere è un impegno preciso che abbiamo assunto e che sarà confermato nella versione finale, anche perché corrisponde all’indirizzo richiesto proprio dal Parlamento italiano. Probabilmente non potrà essere integrato in ogni progetto, ma sicuramente lo sarà in relazione a ogni singola missione. Questo è un aspetto fondamentale, perché tutte le politiche hanno un impatto di genere, che va conosciuto e indirizzato allo scopo di ridurre e in prospettiva cancellare le diseguaglianze. Si tratta di diseguaglianze delle quali non sempre siamo consapevoli. Ad esempio, in Italia esiste un divario di genere importante nell’accesso a internet. Nel Piano si parla di accesso a internet come di una sorta di diritto di cittadinanza, cioè della necessità di averne tutte e tutti la possibilità. In questo caso è evidente che si sta attuando una politica di genere, anche se non viene descritta formalmente in questi termini. Il problema, più a monte, è che fare un’analisi dell’impatto di genere non è banale, perché richiede degli indicatori che permettano di misurare la diseguaglianza in essere e di valutare in corso d’opera, attraverso un monitoraggio adeguato, il miglioramento della situazione come conseguenza delle politiche scelte. Un’analisi quantitativa quindi si costruisce nel tempo, perché bisogna impostare gli indicatori e fare le rilevazioni. Noi, ad esempio, abbiamo la possibilità di vedere l’impatto sull’offerta di lavoro, perché su quella abbiamo dati disaggregati, mentre è più difficile farlo in altri campi. Però esiste la possibilità, laddove non fosse possibile fare un’analisi quantitativa, di operare delle analisi qualitative, che ci permettano di capire gli effetti di ogni scelta politica e il loro impatto. In questo senso, anche il regolamento messo a punto dal Parlamento europeo e dal Consiglio per la stesura del Pnrr, così come le linee guide del Recovery, hanno posto l’obbligo non solo di porre come obiettivo la parità di genere e le pari opportunità per tutte e tutti, ma anche di presentare dei dati disaggregati anche per genere e di fare una valutazione d’impatto, almeno dal punto di vista qualitativo. Quindi l’Italia lo farà, lo chiede l’Europa e certamente lo chiederà il Parlamento, visto che alla Camera dei Deputati, e spero presto anche al Senato, è stato introdotto l’obbligo di valutare l’impatto di genere in tutti i dossier che accompagneranno, d’ora in avanti, ogni provvedimento. Mi sembra che sia stata raggiunta una consapevolezza culturale, che prelude positivamente anche all’approntamento di strumenti statistici e di indagine più accurati».

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