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Riforma del lavoro, “impresa” impossibile

Saporito

Il tema della premialità e dell’efficienza nella Pubblica amministrazione continua a trovare resistenze e ostacoli. Così come la cultura manageriale. Ma c’è anche chi contesta l’accusa generica di “malfunzionamento della Pa” senza prima entrare nel giusto merito delle questioni, come afferma Raffaella Saporito della Sda Bocconi.

di Franco Genovese

Dagli anni Novanta a oggi abbiamo avuto sette riforme del lavoro in ambito pubblico: dapprima il tentativo della Amato-Cassese, poi le due riforme Bassanini, dopodiché la Frattini e la Brunetta avvicendatesi nel primo decennio del secolo, infine la Madia e ora di nuovo la Brunetta. Sette riforme in trent’anni. Davvero tante. E nel frattempo il livello di complessità del sistema è aumentato insieme alle sue inefficienze, senza che si siano osservati risultati apprezzabili. È una falsa percezione? Lo abbiamo chiesto a Raffaella Saporito, professore associato di Pratiche di governo, sanità e non profit presso la Sda Bocconi School of Management.

Dottoressa Saporito, che cosa non ha funzionato finora? Quali inerzie ostacolano le riforme del lavoro?

«Bisogna intendersi su che cosa parliamo quando discutiamo di riforme. Di solito parliamo di interventi normativi che cambiano il sistema di regole, di vincoli e incentivi che si rivolgono a tutta la Pa. Le nuove norme possono favorire o meno i processi di cambiamento, che invece si producono a livello di singola amministrazione. E le amministrazioni, però, sono diverse non solo per caratteristiche, funzioni e dimensioni, ma anche per competenze manageriali in grado di recepire, implementare e cogliere le opportunità offerte dalle norme. È come se ci fossero due livelli: le norme sono il primo livello, il più facile, per certi versi, perché si tratta di approvare leggi o regolamenti. Il secondo livello è quello più difficile, della pratica quotidiana di chi svolge funzioni gestionali nelle amministrazioni. Se la riforma si limita al primo livello e non arriva al secondo o nemmeno lo pensa, nel processo di policy, ebbene le chance di successo sono poche».

Crede che il contenimento della spesa pubblica imposto dai parametri Ue, con la riduzione degli organici e il blocco delle retribuzioni, sia alla base del malfunzionamento attuale della Pa o ci sono altri fattori, per esempio politici e di consenso?

«Per rispondere a questa domanda dovremmo intenderci su che cosa intendiamo per malfunzionamento. Questo Paese ha alcuni servizi pubblici di assoluta eccellenza. Oltre alla sanità, di cui spesso si parla, questo Paese ha altre grandi tradizioni. Ha esportato il modello educativo per la fascia 0-6 in tutto il mondo. Il trasporto pubblico di alcune città è tra i migliori d’Europa. Grazie alla tragica familiarità coi terremoti, abbiamo un sistema di Protezione Civile avanzato e con pochi pari nel mondo, anche per il modello di collaborazione col Terzo settore e il mondo del volontariato. Infine, siamo attualmente l’unico grande Paese europeo a non aver subito nessun grande attentato di matrice jihadista, che magari è solo fortuna oppure indice di una qualche capacità di prevenzione. Queste cose le fanno funzionari pubblici, che lavorano nello Stato o negli enti locali. Ma il tema vero è che la Sanità di alcune Regioni del Sud resta molto indietro, non tutti gli asili solo al livello di quelli di Reggio Emilia, i trasporti pubblici non sono ovunque come a Milano e così via. In più, restano alcune zone d’ombra enormi, come l’amministrazione della giustizia, ma non solo. Contesto, quindi, che si possa parlare di “malfunzionamento della Pa” senza entrare nel merito».

Perché la contesta? La percezione della gente non ha forse valore?

«La contesto perché non aiuta a capire dove sono i problemi e quali sono. E pertanto senza diagnosi corrette si fa in fretta a sposare soluzioni sbagliate. Certo, la Sanità è un esempio di politiche di contenimento della spesa del personale che ha avuto un costo in termini di qualità del servizio, come abbiamo visto. Ma c’è un più ampio tema di capacità amministrativa distribuita in maniera non omogenea nel territorio e di difficoltà a scalare i modelli che funzionano. Quanto alla politica, sa chi non ha il “problema” della politica? Le dittature, perché non hanno elezioni vere, né sono così sensibili al tema del consenso. Non mi sento di dire, quindi, che il problema della Pa sia la politica. Anche sulla corruzione, mi sento di invitare a non semplificare troppo: questo è un Paese che ha una rappresentazione del malaffare che è figlia di una storia di trent’anni fa. Siamo sicuri che sia ancora la storia di oggi? Possiamo produrre qualche dato che non siano i solidi indici di corruzione percepita?»

Secondo lei l’introduzione del paradigma “meno Stato più mercato”, secondo cui il privato funziona meglio del pubblico, ha prodotto quella cultura dell’efficienza e della managerialità che si auspicava? Insomma, il tentativo di portare i principi di funzionamento delle aziende private all’interno degli apparati pubblici, ricercando quindi la massima efficienza, la produttività e l’economicità secondo le ferree leggi del mercato, ha prodotto effetti positivi?

«Anche qui, vedo più temi insieme. Il rapporto e l’equilibrio tra Stato-Mercato è una never-ending story. Sono in molti a tornare a discutere del tema recentemente, da Mazzucato a Bassani e Torchia, passando per Caselli. C’è un tema, però, che mi sta a cuore. Occuparsi di gestione o di organizzazione non significa scimmiottare il privato. Intanto perché i primi grandi apparati organizzativi che richiedevano operations complesse e modelli gestionali sofisticati furono pubblici. E sto parlando dell’amministrazione militare e civile. E poi perché, piaccia o no, le amministrazioni pubbliche sono organizzazioni complesse cui sono affidate risorse, umane, materiali, immateriali, allo scopo di svolgere alcune funzioni, tipicamente immateriali, ma con un grande impatto sociale. Ecco, il modo in cui queste risorse sono combinate e organizzate definisce la qualità dell’azione amministrativa. I diritti civili e sociali dipendono non sono dalle norme, ma anche dalla capacità delle amministrazioni di organizzarsi bene allo scopo. Ecco, questo non è managerialismo o efficientismo. E non c’entra niente col privato. Che, peraltro, è una risorsa enorme che non va demonizzata. Penso al Terzo settore nel sociale. Più in generale, una sana collaborazione tra pubblico e privato aiuta ad avere servizi di qualità e promuove lo sviluppo delle imprese. Sarebbe un segno di grande maturità riuscire a parlare di queste cose fuori dalle barricate ideologiche sul tema».

L’attuale riforma Brunetta cerca di introdurre nuovamente un sistema di valutazione della performance nella Pa, e quindi un sistema di premialità. Ci riuscirà?

«La valutazione e gli incentivi non sono nati nel 2009, esistono nel nostro ordinamento dagli anni Novanta. Nel 2009 si cercò di forzare l’ipocrisia del “todos caballeros” e da allora sulla valutazione si sono fatti enormi passi avanti. Come al solito con enormi differenze tra amministrazioni e latitudini. Personalmente penso che la chiave di volta del lavoro pubblico non siano gli incentivi ma, come peraltro previsto nel Pnrr, una competenza più diffusa a misurare il risultato finale generato, in termini di valore pubblico per la società. Non tanto al fine di premiare o punire, ma di imparare e migliorare. Anche qui non bastano le leggi, ma servono manager pubblici capaci. E questi manager vanno trovati o formati. Per questo il focus sul reclutamento e sulla formazione penso siano i punti chiave della riforma in corso».

A proposito di misurazioni, l’ingresso sulla scena dello smart working, incoraggiato dalla pandemia, con la sua attenzione alle performance e agli obiettivi attesi, porterà benefici organizzativi ed efficienza?

«Lo smart working, è un tema che trascende i confini del pubblico e riguarda tutto il mondo del lavoro nel terziario. Che nella Pa tanti dirigenti abbiano dovuto trovarsi in lockdown per chiedersi che cosa facessero i loro dipendenti e come potessero osservare e valutare il contributo di ciascuno è una buona notizia solo a metà. Ma certo, tutto quello che di buono c’è va preso e rilanciato. Così come non bisogna essere ciechi verso i rischi del lavoro da remoto. Personalmente non temo i fannulloni dello smart working. Mi fa paura il senso di isolamento di chi fa già di per sé lavori ripetitivi, come alcuni lavori amministrativi possono essere, e la perdita del senso di comunità organizzata e di missione, senza i quali non si raggiungono mete ambiziose, come quella che ci aspetta negli anni del Pnrr».

Come si fa a rilanciare la centralità dell’interesse generale nella Pubblica amministrazione?

«Ricordandoci a che cosa serve e a chi serve. Aiuta a orientare non solo il dibattito, ma anche la gestione».

 

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