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Rapporto Istat sulla povertà: un disastro annunciato

Il report annuale è passato pressoché inosservato agli occhi del grande pubblico, complice la partita della nazionale di calcio e un generale disinteresse ai temi sempre più scottanti del lavoro. Ne parliamo con Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità a Milano.

di Alessandro Battaglia Parodi

 

La povertà assoluta cresce inesorabile e tocca il valore più elevato dal 2005. Un dato, quello dell’Istat, destinato a peggiorare nei prossimi mesi visto l’aggravarsi della situazione economica e l’ondata di licenziamenti alle porte. Eppure le avvisaglie c’erano tutte, da tempo, come pure gli appelli a intervenire sul fronte del lavoro e disuguaglianze. Come quelli di Don Virginio Colmegna, presidente di Casa della Carità e da sempre impegnato sul primo fronte della solidarietà.

 

Il rapporto Istat sulla povertà in Italia ci parla di 5,6 milioni di persone in povertà assoluta nel 2020. Questo dato è probabilmente destinato a crescere in futuro…
«Credo proprio di sì. Quando ci sono queste statistiche c’è sempre una domanda di urgenza, questa volta molto più forte del passato. Ricordiamoci sempre che dietro quei numeri ci sono esperienze drammatiche, che il dato numerico non riesce a raccontare. È superfluo dire che occorre un cambio di paradigma, uno scossone vero e proprio, per ribaltare il tema delle diseguaglianze. Anche perché la povertà non è un tema di carattere assistenziale, non si tratta di carità, occorre costruire un nuovo sistema in cui il lavoro torni a essere centrale».

 

Pensa che basterà l’iniezione di denari del Recovery Plan?
«No, non credo. Ciononostante non riesco a essere pessimista. Ricordo però che nel pieno della pandemia il ritornello amaro sulla bocca di tutti era “nulla sarà più come prima”. Ebbene oggi sembra che ce lo siamo tutti dimenticati, ma fino a pochi mesi fa nessuno voleva più tornare a vecchi schematismi o alle precedenti abitudini. Ecco, è qui il punto nodale, non bisogna tornare indietro, è un errore. Occorre operare invece un cambio di mentalità duraturo e instaurare al più presto una solidarietà distributiva, per cui chi ha di più deve dare di più. Ma questa cosa va detta non in un senso punitivo e colpevolizzante, ma semplicemente in una prospettiva di redistribuzione delle risorse, senza che questo diventi per forza uno scontro ideologico. Molti vedono questo processo, e hanno ragione, come una necessità dei nostri tempi ispirata al principio di solidarietà, che è un bellissimo concetto plasticamente espresso all’articolo 2 della nostra Costituzione».

 

L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno, ma è il Nord a registrare il peggioramento più marcato, con l’incidenza di povertà assoluta che passa dal 6,8% al 9,3% con picchi del 10,1% nel Nord-ovest. Un trend generale che voi avevate notato già da tempo in Casa della Carità…
«Sì, i segnali c’erano tutti. Li vedevamo ormai da molti anni. E da tempo stavamo mettendo in discussione, noi come altre realtà radicate sul territorio, un modello di sviluppo che produce disuguaglianze sempre più grandi. Stiamo parlando di stili di vita che vanno ripensati, di un paradigma tecnocratico che non funziona più, soprattutto nelle aree del Nord ricco, come esprime perfettamente una città come Milano, con tutti i suoi enormi problemi di coesione sociale. Occorre ripartire da questi limiti e non deve essere solo un esercizio ideologico o retorico, ci vogliono atti concreti. Soprattutto occorre ricostruire da zero una mentalità, una dimensione di carattere culturale che i grandi centri urbanizzati hanno perso ormai da molto tempo. La solidarietà deve diventare un vero e proprio modello di sviluppo, perché rimette in gioco quei meccanismi vitali che riguardano la sussidiarietà, il lavoro, ma anche la nostra umanità».

 

Un altro dato allarmante è l’incidenza per classi di età, con una punta massima di povertà assoluta fra i giovani tra i 18 e i 34 anni. Sembra insomma che non ci sia futuro per molti di loro. Soprattutto se decliniamo tutto alla dimensione del lavoro.
«Certamente, il quadro è davvero drammatico. Devo però dire che c’è un piccolo aspetto molto interessante di questa grave crisi economica. È un cambiamento di sensibilità tra i giovani, un fenomeno che stiamo imparando ad apprezzare sempre più. E questo è un dato che ha cominciato a emergere ben prima della pandemia. Riguarda nuovi modelli a cui i giovani iniziano a ispirarsi, e non parlo solo di Greta Thunberg e di Friday for Future. C’è oggi una vitalità giovanile, una capacità critica e una tenacia che vogliono mettere in discussione con grande coscienza e responsabilità la classe politica. La quale ha lasciato i giovani ai margini di quasi tutti gli interventi sociali ed economici, a cominciare dalle politiche per il lavoro. Non vorrei fare il moralizzatore alla Savonarola, ma credo che i modelli di stili di vita stiano cambiando e stiano andando nella direzione giusta. E che il senso di una nuova sobrietà stia diventando sempre più un modello efficace per molti di loro. I giovani avvertono da tempo la gravità della situazione e hanno una vitalità culturale che fa davvero ben sperare».

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