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Poco accesso al credito per le imprese femminili

Le resistenze al sostegno finanziario delle donne imprenditrici sono ancora fortissime. Cerchiamo di capire il perché insieme a Vincenza Frasca, presidente del Gruppo Donne di Confimi Industria.

 

di Alessandro Battaglia Parodi

 

Le donne sono spesso più vulnerabili nel mercato del lavoro e, in tempi di crisi economica, sono anche sempre più coinvolte nella gestione familiare e nelle cure domestiche, vedendo scoraggiata la propria propensione al business e quindi alla nascita di nuove imprese “rosa”. Ma c’è anche un elemento esterno che, più di altri, contribuisce a rallentare drammaticamente l’imprenditoria femminile, ed è l’accesso al credito. Gli istituti bancari creano infatti molte più barriere al sostegno di imprese femminili, causando un forte ostacolo al loro sviluppo. Abbiamo quindi incontrato Vincenza Frasca, imprenditrice e presidente del Gruppo Donne di Confimi Industria, per capire quali sono le resistenze culturali che frenano la concessione del credito alle imprenditrici, spesso obbligate all’autofinanziamento ricorrendo a capitali propri o a quelli raccolti a livello familiare.

 

Molti indicatori ci dicono che l’accesso al credito per le imprenditrici è assai più difficile del normale. Il fenomeno del “credit-crunch” è infatti maggiore di molti punti percentuali per le imprese femminili rispetto al resto delle imprese. Ci può spiegare le ragioni?

«Sicuramente ci sono molti stereotipi che vogliono ancora vedere la donna come meno capace di fare impresa e, di conseguenza, come meno meritevole nell’accesso al credito. Ma qualcosa si sta muovendo e sta cambiando. Per tre anni di seguito il Gruppo Donne di Confimi Industria che presiedo ha organizzato tavoli di confronto con la politica e con gli istituti di credito, Abi in primis, per capire dove fosse questo corto circuito. La cultura imprenditoriale femminile in Italia ha fatto passi da gigante con il nuovo millennio basti pensare che solo una imprenditrice su dieci lamenta difficoltà riguardo l’accesso alle risorse finanziarie. Ma è anche vero che più del 40% ricorre a capitali personali per avviare la propria impresa. Differente infatti è l’approccio al credito di chi si appresta a intraprendere il mestiere di imprenditrice e chi lo esercita da alcuni anni. Se invece parliamo di formazione continua o di un supporto consulenziale, i fari delle imprenditrici sono puntati proprio su credito e finanza: quasi il 40% parla di budgeting (38,7%), e un altro 30% di elaborazione di piani di sviluppo (33,5%). E poi non dimentichiamoci che solo nel 1992 a livello normativo è stata riconosciuta dignità e riconoscimento all’impresa femminile. È arrivato il momento di modernizzare e portare al passo dei tempi quella norma che ormai ha più di 30 anni per dare ancor più valore alle donne imprenditrici. Noi come Gruppo Donne di Confimi Industria abbiamo depositato una proposta di legge che va proprio in questa direzione».

 

Ci spiega qual è il motivo “tecnico” per cui il sistema bancario chiede alle imprese femminili maggiori rispetto a quelle maschili? In che cosa consistono poi queste “garanzie”?

«Il nostro centro studi non ha registrato tanto la differenza delle garanzie richieste a una donna rispetto a un uomo. Sicuramente la scarsa longevità di alcune imprese femminili (il 3,7% chiude lo stesso anno di costituzione e a 5 anni il 31,9%) ci rende meno “bancabili” in quanto con meno storia da raccontare agli istituti di credito che non riescono a determinare storicamente la nostra capacità di restituire il denaro.  Come Gruppo Donne abbiamo, fin dalla nostra costituzione, dato al tema del credito un’importanza cruciale. Abbiamo erogato cicli di webinar sull’educazione finanziaria, approfondito la tematica dell’override dal quale abbiamo stilato un decalogo segnaletico per le nostre imprenditrici. Molto spesso, infatti, non si conoscono neppure i vari strumenti messi a disposizione».

 

Sembra che esista un vero e proprio “effetto di genere” nel sistema creditizio che origina anche da molti stereotipi. Crede che tutto ciò abbia a che fare con la bassa stima di crescita delle imprese femminili e a un pregiudizio culturale rispetto alla loro capacità di essere innovative?

«I numeri bisogno anche saperli leggere e soprattutto conoscere il punto di partenza. Le faccio un esempio. Le imprese femminile nate dopo la pandemia perseguono la doppia sfida (non solo) europea della transizione ecologica e digitale: il 14% di nuove imprese femminili opera nel digitale, un altro 12% nel green e altro dato importante, sono sorte per lo più nel Mezzogiorno. Certo, il gender gap, così come il gender pay gap, sono ancora molto presenti anche e soprattutto per ragioni culturali. Anzi in moltissimi ambienti fa anche comodo per mantenere status quo e giochi di potere. Ma noi andiamo avanti, siamo molto determinate e non abbassiamo la guardia. Anzi le donne sanno fare squadra e collaborare molto bene al di là che faccia comodo pensare il contrario, che poi è un altro stereotipo. La nascita di imprese femminili guidate da giovani donne contribuisce in modo determinante a rafforzare di nuove competenze e know how la forza imprenditoriale del nostro Paese a cui si può collegare anche un aumento dell’efficienza produttiva. Occorre dunque incentrate politiche per lo sviluppo dell’impresa femminile che sta crescendo non solo nei servizi ma anche nel settore industriale. Sullo scenario europeo sicuramente il rialzo dei tassi della BCE non aiuta m dobbiamo stringere i denti e andare avanti sollecitando politiche e misure non solo europee ma anche nazionali».

 

Sembra che le imprenditrici italiane non siano le sole in Europa ad avere meno probabilità rispetto agli uomini di accedere ai finanziamenti necessari per avviare un’impresa. Come interpreta questo dato riportato dall’Ocse?

«Gli stereotipi sono universali e più o meno presenti storicamente ovunque. Anche il carico familiare incide. Lo sappiamo e cerchiamo di gestirlo. Ma abbiamo bisogno di aiuto da parte delle istituzioni e della politica. Anche nello scenario europeo occorre incidere a livello normativo: manca infatti una nozione di impresa femminile che valga per tutti gli stati membri e questa mancanza apre spazio a concorrenza fra ordinamenti. Il nostro gruppo, grazie a una interrogazione parlamentare europea con obbligo di risposta scritta può affermare con sicurezza questo vuoto e sta lavorando, insieme ad altre associazioni datoriali e non solo a un grande progetto politico e culturale, “Start We Up” accendiamo l’imprenditoria femminile. Poi le vorrei fare un esempio pratico. Ha presente quando vengono annunciati e stanziati “milioni di fondi per la nascita e lo sviluppo di impresa femminile”? Sa che in realtà tra i beneficiari di quei fondi in realtà non ci sono solo imprenditrici ma lavoratrici autonome e professioniste? Per carità, ben venga, ma allora si parli di occupazione femminile, lavoro femminile non di imprenditoria perché altrimenti poi è difficile fare parallelismi e statistiche con l’Europa, e facilissimo incasellarci tra i gradini più bassi di ogni classifica».

 

Passiamo infine alle buone notizie sul fronte dell’accesso al credito al femminile. Ce ne sono?

«Occorre sicuramente lavorare tutte insieme e fare squadra per recuperare il rapporto banca e impresa che si è perso nel tempo e che ha visto nel rapporto cartolate e digitale il modus operandi in luogo di quello umano. Occorre essere consapevoli dell’importanza della formazione finanziaria, skill necessaria se si vuole portare avanti la propria impresa con visione e lungimiranza. Occorre sensibilizzare, dialogare e sollecitare le istituzioni e la politica; il sano e rispettoso confronto è fondamentale per poter progredire e dare nuovo slancio al nostro paese. Non dobbiamo limitarci a leggere statistiche che mostrano numeri negativi per l’imprenditoria femminile ma dobbiamo adoperarci per cambiare quei numeri in modo positivo tutto questo è faticoso lo sappiamo. La buona notizia? Lo stiamo facendo!».

 

 

 

 

 

 

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