Il Pnrr assegna ben 700 milioni di euro alla realizzazione e al recupero di impianti sportivi. Verranno ben spesi? E con quali criteri dovrebbero essere scelti i progetti? Lo abbiamo chiesto a uno dei volti più noti dello sport italiano nonché manager di fama internazionale, Giuseppe Porzio.
di Franco Genovese
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha, tra i suoi ambiziosi obiettivi, quello di incrementare l’inclusione sociale attraverso la realizzazione e la rigenerazione di impianti sportivi. A tale scopo sono stati recentemente identificati dal Governo tre cluster di intervento suddivisi in due avvisi di invito a manifestare interesse.
Il primo bando è destinato ai capoluoghi di Regione, ai capoluoghi di Provincia con più di 20mila abitanti e ai Comuni con più di 50mila abitanti e prevede la realizzazione (per 350 milioni di euro) e la rigenerazione (188 milioni) di impianti polivalenti indoor, cittadelle dello sport o impianti natatori.
Il secondo avviso pubblico è invece destinato a tutti i Comuni italiani ed è finalizzato alla realizzazione di nuovi impianti o alla rigenerazione di impianti esistenti che siano di interesse delle varie Federazioni sportive, con l’obiettivo di promuovere la cultura e i valori fondanti dello sport insieme alla partecipazione alle diverse discipline (per 162 milioni totali).
La dotazione complessiva per quest’importante intervento denominato “Sport e inclusione sociale” (Missione 5, Componente 2, Investimento 3.1) è dunque di ben 700 milioni di euro. Una cifra importante che tuttavia non potrà soddisfare tutti gli appetiti. Abbiamo allora chiesto a un manager sportivo molto navigato come Giuseppe Porzio, ex pallanuotista e allenatore di club tra i più titolati di tutti i tempi, di fornirci la sua visione disincantata di quello che succede e succederà.
Il Pnrr sta iniziando a ingranare le marce più alte e presto circoleranno molti denari. Ci sarà l’assalto alla diligenza?
«Difficile dirlo. Sicuramente l’attuale congiuntura è molto difficile non solo per le associazioni sportive ma anche per le società. Se andiamo di questo passo, tra il lunghissimo periodo di fermo dovuto alla pandemia e gli aumenti delle bollette, molte società non ce la faranno. Pensi solo al mondo delle piscine, che hanno costi di gestione altissimi. Il momento è davvero duro e occorre aiutare le società sportive, ma non certo con le logica dei soldi a pioggia. Non basteranno per tutti, e occorrerà fare scelte di merito. Considerando inoltre che questa misura è rivolta alla coesione e all’inclusione sociale, non certo alla mera edilizia».
Il nostro Paese dovrà in ogni caso realizzare almeno 100 nuovi impianti entro il 2026.
«Non si discute che di questi 700 milioni la fetta più grande, esattamente la metà, sarà giustamente destinata alla realizzazione di impianti sportivi nuovi. Il punto è che occorre utilizzare criteri e punteggi di aggiudicazione molto specifici per la scelta dei luoghi e delle comunità a cui attribuirli. Ricordiamoci inoltre che ben 188 milioni saranno destinati al recupero degli impianti già esistenti, e che tra questi ci sono realtà che meriterebbero davvero un encomio per il grande lavoro di tenuta sociale che svolgono da sempre su territori disagiati. A queste realtà sto pensando. Per loro occorrerebbe avere un occhio di riguardo».
Sta parlando di un sistema premiale che sia in grado di riconoscere le strutture più meritevoli?
«Credo che bisognerebbe fare un attento screening sui diversi territori, che tenga presente non solo l’alto contributo sociale e di coesione, ma anche la demografia e le condizioni socioeconomiche della popolazione che vive in queste aree disagiate. Tornando alla domanda iniziale, gli investimenti non vanno fatti a pioggia, ma devono essere mirati a costruire impianti laddove effettivamente c’è bisogno. E non cattedrali nel deserto. Quelle non servono a nulla e a nessuno perché non hanno il volume d’utenza in grado di sostenere la gestione complessiva. Sarebbero soldi buttati dalla finestra».
Bisogna fare comunità quindi…
«Ma certo. Lo sport è un collante prodigioso, soprattutto laddove c’è disagio sociale, criminalità e povertà. Tutto lo sport può essere un punto di riferimento rassicurante e un momento di aggregazione positivo e formativo. Ricordiamoci poi che sia il dilettantismo sia l’agonismo non creano soltanto benessere sociale, ma anche ricchezza e occupazione. Il Pnrr, in questo specifico caso, deve essere sviluppato con un programma di investimenti molto mirati che dia risposte a lungo termine e in maniera strutturale, con competenza e managerialità. Insomma, deve riguardare progetti di lunga gittata, cioè sostenibili economicamente nel tempo. Gli aiuti a pioggia non servono a niente».
Lei è un manager che ha nuotato molto nell’ambiente sportivo, come dimostra il suo straordinario palmares. Che cosa accade all’estero rispetto al tema della managerialità?
«Devo essere onesto, spesso facciamo riferimento all’estero come benchmark, ma in molti casi sbagliamo. E questo è il caso. Credo che il sistema sportivo italiano funzioni piuttosto bene, nonostante alcune difficoltà strutturali. Possiamo sicuramente migliorare come impiantistica, ma ancor di più per quanto riguarda la managerialità. L’ultima esperienza estera che ho fatto è stata quella del Canada, che è sicuramente all’avanguardia per quanto riguarda le strutture sportive della pallanuoto, ma non rispetto allo sport giocato a livello di campionati. Quindi non bisogna sempre svilirsi e buttarsi giù. Ma al di là di queste considerazioni, il nostro sistema sportivo, a cominciare dal Coni, dalle federazioni fino ai comitati locali, ha fatto finora molto bene e può fare ancora meglio. A cominciare dall’ammodernamento degli impianti sportivi, appunto, e dalla costruzione di strutture nuove. Ma anche un buon investimento sulla formazione manageriale, spesso debole o deficitaria, non può più mancare».