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Made in Carcere: quando la circolarità crea dignità

LUCIANA DELLE DONNE

L’ideatrice e fondatrice Luciana Delle Donne racconta la storia del brand e della onlus leccese Officina Creativa che da oltre 15 anni guida e dà lavoro a molte detenute, anche grazie al prezioso supporto di Fondazione con il Sud.

 

di Andrea Ballocchi

 

“La vita è fatta di scelte, non di occasioni”. È la scritta che campeggia nel sito web di Made in Carcere, marchio della cooperativa sociale Officina Creativa, realtà del Terzo settore nata a Lecce e che oggi ha 15 anni e conta circa 35 persone direttamente coinvolte, per lo più ex detenute. È un modello di economia circolare e rigenerativa basato sul dare una seconda vita alle persone e anche ai materiali. L’impresa etica manifatturiera realizza infatti gadget e complementi d’abbigliamento e d’arredo realizzati con tessuti di scarto.

Sempre a proposito di scelte, il caso di successo dietro a Made in Carcere è frutto di un cammino lungo e non privo di ostacoli, di grandi obiettivi raggiunti, ma anche di difficoltà e di un fallimento iniziale. La storia del brand e della onlus nasce da Luciana Delle Donne, ideatrice, fondatrice e Ceo e da un percorso di vita che l’ha portata, dopo oltre vent’anni nel settore bancario vissuto in posizioni manageriali, a cambiare totalmente vita.

Da manager di banca al Terzo settore: il percorso di vita di Luciana Delle Donne

Luciana Delle Donne è stata una dirigente bancaria di alto livello. Ha creato la prima banca online d’Italia e ha lavorato per 22 anni nel settore finance, raggiungendo una posizione apicale e molto redditizia. Ma a lei non bastava: voleva dare una risposta ai bisogni delle tante persone che vivono in una condizione di disagio, di emarginazione. Così ha deciso di lasciare una carriera sicura per un’idea: «la mia scelta è stata il frutto di riflessioni e di una consapevolezza, aiutare chi è in difficoltà. Facevo volontariato a Milano, dove il confronto tra ricchi e poveri stride in modo particolare. Ero a disagio nel pensare alla mia condizione di agiatezza, di privilegio, alla mia “comfort zone”. Giorno dopo giorno è cresciuta in me la volontà di fare di più per gli altri».

Così è tornata a vivere in Puglia dove ha cominciato a formulare l’idea di realizzare una realtà che potesse essere di aiuto per le persone in stato di detenzione.

Si arriva così a Officina Creativa e a Made in Carcere, brand nato nel 2007 e alle tante attività avviate. Tra queste c’è il progetto Bil, Benessere Interno Lordo, sostenuto dalla Fondazione con il Sud, che vede coinvolte 65 persone in stato di detenzione e 8 partner di progetto dislocati in Puglia, Campania e Basilicata. Qui Officina Creativa (specializzata in realizzazioni “chiavi in mano” di arredi e finiture in ambito hospitality, retail e uffici) vuole replicare il modello di “economia rigenerativa” sviluppato attraverso il brand sociale Made in Carcere: creare nuovi posti di lavoro, trasferire le proprie competenze e la propria esperienza ad altre cooperative e associazioni.

 

Luciana Delle Donne, Made in Carcere vanta oltre 15 anni di storia. Quali sono stati i motivi che hanno portato lei, manager di banca di successo, ad avviare una realtà di questo tipo? Da dove è partita?

«Sono partita da un fallimento. Avevo pensato di aiutare alcune detenute nel carcere di Lecce attraverso un percorso formativo e lavorativo finalizzato alla realizzazione di un collo di camicia da me ideato e brevettato, un prodotto particolare ed elaborato. Per questo avevo avviato un corso di formazione di sei mesi aperto a 15 persone. Quando ormai era quasi tutto pronto e mi avviavo alla produzione vera e propria, sono andata in carcere per comunicarlo. Qui scoprii che le 15 persone non c’erano più, erano uscite per l’indulto. Pur sentendomi abbattuta, ho capito che il progetto da me ideato aveva bisogno di strutturarsi meglio, traendone vari insegnamenti. Uno in particolare. In occasione di una fiera, mi cadde l’occhio sull’enorme spreco di carta e plastica usata per contenere i documenti di seminari, convegni e fiere. Lì ho concepito l’idea alla base di Made in Carcere che ha consentito di lanciare sul mercato le famose shopper bags in tessuto, borse che hanno sostituito le tradizionali buste di plastica o di carta. Sono prodotte utilizzando scarti tessili, donati all’inizio da imprenditori amici del settore che dovevano disfarsene senza però gettarli. Ancora oggi c’è un grande bisogno di liberarsi di tessuti spesso di eccellente qualità evitando però di sostenere costi per lo smaltimento e di immettere CO2 nell’ambiente. Così dall’incontro tra domanda e offerta si è avviato un processo virtuoso di riuso che vede coinvolte svariate aziende e cooperative. I materiali di scarto sono la base dei nostri prodotti, facili da cucire. La loro realizzazione permette alle donne che li realizzano di farlo grazie a un impegno formativo minimo e con la possibilità di avere in breve tempo un lavoro retribuito che fornisce un importante occasione di riscatto».

 

Quali sono le difficoltà che incontra per attuare il modello imprenditoriale da lei ideato?

«Dico spesso che lavorare nello staff di Made in Carcere è quasi una missione. È davvero impegnativo portare avanti progetti in carcere, in un mercato sempre più aggressivo e difficilmente conciliabile con i ritmi degli istituti di detenzione. Uno dei principali problemi è legato ai tempi di lavorazione, più dilatati rispetto al contesto industriale tradizionale: in carcere non c’è lo stesso ritmo di un laboratorio professionale e vi sono difficoltà organizzative dovute anche a esigenze legate a codici di comportamento dovuti alla sicurezza piuttosto che a quelli dell’impresa. A ciò si aggiunge il fatto che spesso il valore dei manufatti realizzati con questo spirito di “economia rigenerativa” non siano percepiti come tali. Spesso i committenti intendono acquistare prodotti green, ma tendono a considerarli, e a volerli pagare, come merce di bassa qualità, frutto di produzione di massa, tipico delle azioni di greenwashing. Per fortuna non siamo tutti uguali».

 

Made in Carcere è un modello di economia circolare e rigenerativa. Quanto è importante il tema della sostenibilità per una realtà come la vostra?

«Fin da subito abbiamo creduto nel concetto di sostenibilità ambientale, ma anche sociale ed economica. Sempre con idee innovative ed apripista, oltre 10 anni fa abbiamo sostenuto e cocreato la prima cooperativa di comunità a Melpignano, nel leccese, installando un impianto fotovoltaico diffuso sui tetti del Comune e puntando sulla produzione di energia da rinnovabili e sul risparmio energetico. E soprattutto facendo ricadere l’incentivo positivo del fotovoltaico sulla comunità, come ad esempio l’acquisto dei libri o del bus per la scuola. Tutto finalizzato a creare benessere diffuso per la comunità. Lo stesso recupero dei materiali fa parte di questa attenzione all’ambiente, tanto quanto è viva la componente di sostenibilità sociale. A questo riguardo segnalo, tra gli altri, il nostro progetto per la creazione di sartorie sociali di periferia, supportato grazie alla Fondazione con il Sud. Sempre grazie a quest’approccio legato al benessere e alla bellezza, ma anche grazie alla visione e lungimiranza dell’allora direttore del carcere, Antonio Fullone, siamo riusciti a realizzare una maison all’interno del carcere dove lo spazio è arredato come se fosse una casa a misura di persona, con mobili antichi, divani, poltrone tappeti, sala riunioni, sala lettura, palestra. E con la cosa più ambita in carcere, un frigorifero».

 

A proposito del progetto Bil, quanto è stato prezioso il supporto della Fondazione con il Sud e, in generale, quanto è importante poter contare su iniziative di finanziamento pubblico per sostenere progetti dedicati al Terzo settore?

«È fondamentale, specie per dare maggiore profondità a iniziative e progetti. L’apporto dei fondi ottenuti grazie a Fondazione con il Sud è stato determinante per cambiare pelle, ovvero per fare un salto di qualità, investendo in un metodo di progettazione più specifica come nel caso di Bil. Anzi, a questo riguardo dico che con questo progetto abbiamo creato una sorta di “cassetta degli attrezzi” metodologica per fornire indicazioni utili per chi intende avviare un’iniziativa simile alla nostra. Ci ha inoltre permesso di aprirci ad altre realtà consentendoci di favorire il loro sviluppo. È il caso, per esempio, del carcere di Catanzaro, a cui abbiamo donato due macchine per cucire. Abbiamo anche potuto accogliere da Venezia alcune donne vittime della tratta della prostituzione e sfruttamento, formarle, pagargli uno stipendio e consentire loro di avviare una propria realtà cooperativa a Verona. A Grosseto abbiamo donato tessuti e creato il logo per un’associane che ha realizzato borse e con il ricavato, hanno sostenuto la creazione di pozzi idrici in Africa. Si tratta di piccole azioni, possibili grazie a un supporto finanziario extra, come quello appunto di Fondazione con il Sud».

 

Quali sono invece i motivi alla base del successo, testimoniato dal fatto che la percentuale di abbattimento della recidiva sfiora il 100%?

«Credo sia dovuto al fatto che Officina Creativa non si limiti a essere una realtà imprenditoriale per la creazione e la vendita di gadget, ma che crei le condizioni per cambiare vita e per far sì che il periodo di detenzione possa trasformarsi in un tempo utile per creare, oltre alle competenze specifiche, una buona consapevolezza e autostima e sviluppare quella dignità che costruisce una nuova identità. In Italia quasi l’80% delle persone che lavorano in carcere non vi ritorna più, una volta scontata la pena. Invece avviene l’esatto contrario in coloro che trascorrono il periodo detentivo senza essere impegnate in un lavoro. Le persone cambiano in meglio, quando possono conoscere e apprezzare il valore della dignità, della opportunità di svolgere un lavoro onesto e appagante. Grazie ai progetti avviati in carcere, di carattere formativo, i detenuti coinvolti possono sviluppare le proprie conoscenze e competenze, ricevere stimoli positivi. Oltre a generare occasioni professionali, abbiamo creato iniziative culturali, portando in carcere le testimonianze di professionisti del calibro dell’imprenditore Santo Versace, dell’artista Michelangelo Pistoletto, del biologo, docente e formatore Daniel Lumera, del filosofo Luca Alici e di tanti altri personaggi, tra cui monaci tibetani, giornalisti e musicisti».

 

Quali sono i prossimi progetti che volete avviare?

«Partono sempre dalla nostra volontà di aiutare le persone sia dentro che fuori il carcere e di replicare il nostro modello. A questo proposito intendiamo promuovere nel futuro l’avvio di un centro di ricerca, creando una social academy, riuscendo ad avviare percorsi di formazione non solo all’interno dell’istituto detentivo, ma anche fuori. L’idea è che le persone possano godere di un percorso formativo circolare. E anche in questo caso servirà un supporto finanziario importante».

 

 

 

 

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