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La forza gentile delle donne contro le diseguaglianze

Daniela Fatarella

La lotta alla povertà, il ruolo delle donne, le alleanze tra non profit e aziende. Ne parliamo con Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia.

di Marco Ehlardo

Save the Children è l’esempio di come il Terzo settore, oltre alla sua fondamentale funzione sociale, abbia anche un ruolo importante per lo sviluppo economico dei territori. Un bilancio di oltre 110 milioni di euro all’anno e uno staff di oltre 300 persone consentono all’organizzazione di portare avanti 291 progetti, in Italia e nel mondo, e di raggiungere 3,8 milioni di beneficiari. Numeri difficili da raggiungere anche per gran parte del mondo profit. E, altra significativa differenza, con una donna al comando. Daniela Fatarella è la direttrice generale di Save the Children dal 2019. Abbiamo affrontato con lei alcuni dei temi più rilevanti per l’Ong che dirige.

Save the Children è la più grande Ong in Italia. Cosa significa e cosa comporta gestire un’organizzazione non profit così grande e attiva?

«È un privilegio e un grande orgoglio, soprattutto perché la nostra organizzazione fu fondata proprio da una donna, Eglantyne Jebb, che più di 100 anni fa, nel Regno Unito, decise che bisognava mettere in campo ogni sforzo possibile per salvare dalla fame e dalla carestia i bambini dei Paesi usciti sconfitti dal primo confitto mondiale. Il suo senso per la missione, la sua capacità di unire efficacia e passione, la sua volontà di agire sul campo e contestualmente impegnarsi per cambiare le prassi e le legislazioni che non proteggono i diritti dei bambini, continuano a guidarci ancora oggi, in Italia e nel resto del mondo. Oggi come allora c’è ancora moltissimo da fare per proteggere i bambini e garantire loro il futuro al quale hanno diritto, e il Covid si è dimostrato un grandissimo acceleratore di diseguaglianze, creando situazioni ancora più complesse e difficili. E noi, come organizzazione non profit, continuiamo ogni giorno a fare la nostra parte perché nessun bambino venga lasciato indietro, dalle periferie delle nostre città in Italia agli angoli più remoti del pianeta».

Non sono molti le dirigenti donne in questo settore, come in tutti i settori economici italiani. Perché secondo lei?

«Il non profit italiano vede un’alta componente femminile, come nella stessa Save the Children. Donne che ogni giorno portano professionalità, passione, capacità di ascolto ed empatia in un settore che oggi più che mai arriva in territori spesso lasciati soli e garantisce una rete di supporto e cura a migliaia di persone. Le nuove generazioni, in particolare, vedono donne brillanti e capaci di gestire settori complessi e sfidanti. Spero fortemente che anche in Italia, non solo nel nostro ma in tutti settori economici, si possano vedere donne di spessore professionale e di elevate qualità personale occupare ruoli sempre più decisionali, con quella forza gentile che oggi è così necessaria per lottare contro le diseguaglianze e ricostruire non solo nel nostro Paese, ma in molti luoghi del mondo. Purtroppo in Italia le donne continuano a scontare un forte divario di genere che, come Save the Children ha più volte denunciato, si origina già dai primi anni di vita e dalle prime esperienze a scuola. Bisogna puntare sull’educazione delle bambine e delle ragazze: dare loro opportunità sin dall’infanzia. Investire sul futuro delle bambine, che sono le donne di domani, vuol dire investire sul futuro dell’intera società».

Save the Children da anni lavora anche sul territorio italiano. Quali sono i principali progetti, i principali risultati e i principali problemi?

«Spesso le persone rimangono sorprese quando vengono a sapere che Save the Children è impegnata anche in Italia, immaginando che un’organizzazione umanitaria sia operativa solo nei contesti di guerra o nei Paesi più poveri al mondo. Eppure il nostro intervento in Italia è davvero corposo e siamo presenti su tutto il territorio nazionale, dove lavoriamo a stretto contatto con le istituzioni, con le scuole, con le famiglie e con le altre associazioni. Nel 2020 abbiamo raggiunto oltre 141mila bambini e famiglie, rafforzando decisamente il nostro intervento anche per far fronte alle sfide della pandemia. I nostri progetti spaziano dal contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica al sostegno concreto ai genitori più vulnerabili; dalla promozione dei diritti e del protagonismo di bambini e ragazzi allo sviluppo di competenze indispensabili per il futuro dei minori, specialmente in un momento storico come quello che stiamo vivendo caratterizzato da privazioni inimmaginabili nella vita dei bambini. Oggi più che mai lavorare per contrastare la dispersione scolastica e la povertà educativa, impegnarsi per l’integrazione dei minori migranti e far fronte alla povertà economica che colpisce migliaia di bambine e le loro famiglie sono azioni prioritarie.

Save the Children si finanzia soprattutto da privati, sia singoli che imprese. La vostra collaborazione col mondo profit è molto efficace. Mi può fare uno o più esempi di particolare importanza?

«Nel corso degli anni abbiamo sviluppato partnership preziosissime con le aziende del mondo profit, che ci danno un supporto fondamentale per raggiungere ancora più bambini con i nostri progetti, in Italia e nel mondo. Si tratta di realtà aziendali che sempre di più dimostrano grande attenzione per il sociale e che scelgono di fare la loro parte per costruire un futuro migliore e sostenibile. Di esempi ne potrei fare tantissimi. Per esempio la storica collaborazione che abbiamo con Bulgari, che porta avanti con noi diversi nostri progetti sia nel mondo, come gli interventi di educazione per i bambini rifugiati siriani che vivono nel campo di Zaatari, in Giordania, oppure di empowerment giovanile nelle comunità più vulnerabili della Bolivia; ma anche in Italia, dove per esempio di recente Bulgari ci ha supportato nell’avviare il nostro Punto Luce delle Arti a Ostia. Una partnership che in 11 anni ha raggiunto 100 milioni di dollari destinati ai programmi dell’Organizzazione».

Anche nel rapporto con il profit siete un modello di innovazione. State passando dalla partnership alla coprogettazione. Come funziona questo nuovo modello e che risultati aggiuntivi sta ottenendo?

«È vero e questo è un aspetto molto importante. Perché sempre di più, anche spinte dagli obiettivi ambiziosi dell’Sdg17 (Sustainable Development Goal 17, ndr), che spinge proprio alla collaborazione tra società civile, profit e istituzioni, molte aziende scelgono di mettere in campo non solo fondi, ma know how, competenze e una visione comune per un futuro sostenibile. Da questa sintonia, dunque, nascono idee progettuali condivise, dove ognuno porta le proprie conoscenze ed eccellenze. Le aziende danno un’importanza enorme a queste progettualità, le condividono con i propri dipendenti fino a coinvolgerli direttamente anche in azioni di volontariato d’impresa. Si tratta di progetti che nascono con il piede giusto sin dal primo momento e a beneficiarne sono i bambini e le famiglie ai quali sono rivolti. E diventano parte del core business dell’azienda stessa, e questo fa la differenza».

Il rapporto profit–non profit in Italia non è molto sviluppato, soprattutto al Sud. Il vostro modello di collaborazione con il mondo profit, con le opportune differenze di grandezza, crede sia replicabile per gli enti più piccoli? E come secondo lei?

«Noi pensiamo di sì. Perché a crescere è soprattutto la volontà e la dedizione del mondo profit a sviluppare la responsabilità sociale d’impresa. E questo, inevitabilmente, porterà al coinvolgimento anche degli enti del terzo settore più piccoli, perché ognuno porta avanti una missione unica e speciale, che merita di essere valorizzata e sostenuta. Nutro molta speranza nel fatto che il rapporto profit-non profit, in Italia, diventi sempre più saldo ed efficace. A beneficiarne sarebbe l’intera società. Bisogna avere la curiosità reciproca di conoscersi e la volontà di sviluppare una visione comune».

Avete avviato anche una collaborazione con la nuova Fondazione Cassa Depositi e Prestiti, con il progetto You the Future. Com’è nata quest’iniziativa e cosa pensa possa apportare al Terzo settore questa fondazione?

«Si tratta di un progetto molto innovativo, che mira allo sviluppo delle competenze digitali di bambini e ragazzi colpiti dalla pandemia in Italia. Confrontandoci con la Fondazione ci siamo subito focalizzati sulle tante privazioni che i minori, nel nostro Paese, stanno subendo per via della chiusura delle scuole e della chiusura di così tante attività indispensabili per stimolare le relazioni sociali, soprattutto nelle periferie più svantaggiate delle nostre città. Siamo estremamente orgogliosi di avere al nostro fianco Fondazione Cassa Depositi e Prestiti e, insieme, di aver dato vita a un progetto innovativo e all’avanguardia che, grazie alla radio, ai podcast e alle tante attività previste, permetterà a tanti giovani di riscoprirsi protagonisti della loro vita e di fare da cassa da risonanza ai diritti e alle istanze dei loro coetanei.

Il Terzo settore si è lamentato di essere stato poco considerato nelle bozze del Recovery Plan italiano. Cosa ne pensa e che cosa si aspetta da questa partita così importante?

«La pandemia ha messo ancora più in luce il ruolo fondamentale del volontariato e delle realtà attive nel sociale nel nostro Paese, che in questi mesi hanno fornito un sostegno prezioso a tante famiglie alle prese con le conseguenze sociali ed economiche della crisi. Per questo auspichiamo che una parte importante della nostra società qual è il Terzo settore, che rappresenta un mondo variegato di persone che ogni giorno si impegnano per il cambiamento, possa essere valorizzato come merita, a partire dalla destinazione dei fondi del Recovery Plan, indispensabili anche per lenire le perdite che inevitabilmente hanno colpito tante realtà del nostro settore. C’è bisogno di essere considerati partner, capaci di portare competenze e conoscenza dei territori, non solo implementatori di progetto. Solo così possiamo fare davvero sistema».

 

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