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Il ruolo “domestico” delle donne nel New Deal 2.0

Sono molte le analogie tra il New Deal rooseveltiano e il “piano di recovery” che modificherà profondamente il mondo del lavoro nei prossimi anni. E a farne le spese sarà molto probabilmente l’occupazione femminile.

 di Alex Gisondi

 

Il New Deal è stato un periodo che ha assunto una potente valenza simbolica nel campo progressista. Viene infatti associato a uno dei momenti di maggiore attività espansiva nella storia economica mondiale. Ma perché ne parliamo adesso? Perché negli ultimi mesi viene utilizzato molto spesso nella retorica narrativa del Next generation Eu e degli aiuti strutturali che interesseranno il Recovery Plan per i prossimi 6 anni.
Una mitografia eccessiva, a ben guardare, che allora produsse certamente moltissimi esiti positivi ma a scapito soprattutto delle donne. E fece precipitare il lavoro femminile nei gradini più bassi delle politiche occupazionali. Vediamo insieme i motivi storici che produssero tutto questo e soprattutto quali sono i rischi che la cosa si ripeta anche oggi.

 

La Grande Depressione
Il 24 ottobre 1929 l’indice della borsa di Wall Street, dopo alcuni anni di grandi guadagni attivati da una bolla speculativa sul mercato azionario americano, crollò segnando un ribasso del 50% dei titoli più significati. Da lì cominciò un’escalation negativa che portò gli Stati Uniti a una tragica crisi economica, che si riversò in pochissimi mesi sull’economia globale con un calo generalizzato di domanda e produzione e con esiti devastanti per tutti i Paesi del mondo.
Gli effetti furono fin da subito drammatici: fame diffusa, povertà e disoccupazione (circa 20 milioni nel primo biennio), oltre a una generale sfiducia nel sistema capitalistico. Gli stati colpiti, in particolar modo gli Usa, si precipitarono nella ricerca di soluzioni rapide ed efficienti, generando una profonda trasformazione istituzionale, in particolare riguardo al ruolo dello Stato e del Governo federale rispetto all’intervento pubblico in economia.
Molti furono gli esperimenti sociali ed economici intrapresi in quel periodo. Nel biennio ’29-‘30 però, la situazione non fece che peggiorare, colpendo soprattutto le fasce più deboli della società, con una crescita vertiginosa della disoccupazione. Dopo i primi tentativi fallimentari dell’amministrazione Hoover, con la sua ferrea ortodossia fiscale, nel 1932 si arrivò alla presentazione del tanto sperato New Deal del democratico Franklin Delano Roosevelt. Nella sua fase iniziale fu più propaganda che un vero e proprio piano concreto per la ripresa. Dopo molti proclami Roosevelt decise di intraprendere la via delle risoluzioni economiche. In un crogiuolo di idee politiche, economiche e sociali tra le più eterogene, due presero subito piede: la teoria dei prezzi amministrati, già presente con Hoover, e la “critica sottoconsumistica”. Quest’ultima teoria vedeva la crisi come risultante del limitato potere d’acquisto della maggior parte dei cittadini americani. In sostanza, una crisi della domanda.

 

L’obiettivo della ripresa economica e il ruolo della donna
Al pragmatismo economico dello staff presidenziale si accompagnò un deciso pragmatismo politico: affinché il New Deal avesse successo, si scelse di sacrificare alcuni gruppi sociali in modo da massimizzare il sostegno politico al “nuovo patto” sociale.
Molte furono le categorie colpite, paradossalmente, dal piano di “recovery” economico. E gli effetti che i nuovi provvedimenti ebbero sulla società civile furono per molti aspetti drammatici. Il caso più emblematico fu quello relativo alle nuove “politiche familiari” e quindi alla popolazione femminile. Provvedimenti, annunci, messaggi indiretti, spesso ben celati dietro a una retorica patriarcale che finì per confinare la donna al solo ambito del lavoro domestico. È questo uno degli aspetti meno noti del New Deal e che meno è emerso storiograficamente in tutta la sua diabolica manipolazione narrativa e comunicativa.
In un periodo in cui le donne si stavano ritagliando uno spazio sempre più importante nella società grazie al lavoro, e lo avevano fatto per restarci, non solo per risolvere le esigenze economiche familiari, da più parti iniziarono a sollevarsi lamentele sul ruolo della forza lavoro al femminile, che andava a sottrarre importanti opportunità di occupazione per gli uomini. Un atteggiamento sempre più ostativo che fu anche sancito da leggi che, in alcuni Stati, permettevano il licenziamento di donne insegnanti o in generale di lavoratrici pubbliche, per causa di matrimonio. Si giunse addirittura a sostenere la necessità di discriminare nelle assunzioni le donne che avessero un marito con il posto fisso.
Lo stigma nei confronti della donna lavoratrice arrivò presto anche nel mondo della comunicazione pubblicitaria, dove l’essere autonoma e intraprendente veniva identificato con l’essere pigra e spendacciona, egoista, non avere abbastanza amore per i figli e soprattutto trascurare i lavori domestici.
Insomma, il “new job” della donna della crisi americana era praticamente diventato quello della casalinga, nonché moglie e madre.

 

L’obiettivo strategico è “addomesticare” la donna
L’obiettivo di questo infernale meccanismo culturale era ovviamente di tipo economico-strutturale: la donna a casa permetteva di disingolfare le già precarie politiche occupazionali privilegiando il lavoro maschile, più “produttivo” e lontano dalle incertezze della maternità e delle assenze per le varie esigenze di caregiving. Inoltre la donna concentrata nel lavoro domestico consentiva importanti economie di scala sollevando la spesa pubblica da una serie molto sostanziosa di problematiche sociali: pur non esistendo ancora un welfare state (arriverà da lì a poco), la donna ora intesa come centro del focolaio domestico, permetteva di calmierare ed estinguere il problema endemico delle “broken families”, tenendo unita la famiglia, vero nucleo portante del tessuto sociale e produttivo. Ed evitando il vagabondaggio, l’ubriachezza e le condotte irregolari, devianti e criminali degli uomini. Non solo, si scongiurava al tempo stesso la piaga della prostituzione femminile, spesso l’unica via per procurare qualche entrata a una famiglia disgregata.
Inoltre la donna impegnata nei lavori domestici e nell’accudimento di bambini e anziani rappresenta da sempre una facile forma di gestione delle esili economie famigliari in tempi di crisi, con importanti risparmi nella gestione di un unico salario divenuto ormai fragile. Insomma, con la donna a casa la produttività del lavoro aumenta, quella dell’uomo naturalmente, soprattutto in fabbrica.
Ebbene tutto questo si ebbe nel New Deal. E può accadere ancora, ovviamente.

 

Torniamo al Recovery Plan e alla crisi occupazionale
Anche oggi in Europa, e nello specifico in Italia, con la drammatica crisi del lavoro che sta per investire il nostro tessuto sociale, la questione femminile ritorna (in realtà non è mai andata via) più viva che mai. E sono molte le similitudini tra il New Deal di epoca rooseveltiana e il piano sessennale di recovery che modificherà profondamente il profilo occupazionale del nostro Paese.
Fa sorridere che il tema del New Deal venga oggi brandito da alcuni partiti come formula (sfocatissima peraltro) per risolvere l’annosa questione della parità di genere. Persino la presenza delle donne nei ruoli apicali dei partiti o nella composizione del Governo viene usata narrativamente per dimostrare che c’è una forte volontà di diminuire il divario tra uomo e donna. In realtà si tratta perlopiù di simboli usati come arredi di scena.
Anche la narrazione agiografica del lontano New Deal rooseveltiano serve perfettamente a questo scopo. Ma non bisogna mai dimenticare che queste operazioni di marketing sociale, che potremmo definire di “pink washing”, servono a occultare il dato più ovvio e banale dei nostri tempi. Ovvero che la presenza femminile sui luoghi di lavoro (e va da sé, nei ruoli di comando) sta subendo e subirà sempre più un drastico ridimensionamento per via della crisi economica che da oltre dieci anni sta schiacciando verso il baratro retributivo il mondo del lavoro, soprattutto quello femminile. E il peggio deve ancora arrivare.
Parlano i dati: nel solo mese di dicembre 2020 sono evaporati 101mila posti di lavoro, di cui 99mila donne, finite disoccupate o inattive (dati Istat). Analizzando poi l’intero 2020, le cose non vanno di certo meglio. Dei 444mila disoccupati prodotti dalla crisi, il 70% è costituito da donne.

 

Gli strani insegnamenti della storia
La storia insegna, come abbiamo in parte visto, che la donna in tempi di crisi è sempre la prima a fare le spese della riorganizzazione della forza lavoro. Siamo quindi immersi in una gigantesca cortina fumogena di comunicazione continuamente rimaneggiata, dove non sono importanti le misure concrete per far fronte seriamente al problema, ma i proclami e le azioni di facciata.
Ci troviamo molto probabilmente sulla soglia di una feroce restaurazione culturale in cui il ruolo femminile verrà nuovamente relegato nel sottoscala delle dinamiche del lavoro.
Con lo tsunami di licenziamenti che travolgerà a breve il tessuto sociale italiano, la lavoratrice è destinata a essere il primo bersaglio di spending review. E se poi la lavoratrice è anche madre o, peggio, ambisse a diventarlo, la promozione al ruolo di casalinga parsimoniosa e senza grilli per la testa è di certo assicurata.
Un nuovo ciclo di riforme o è equo oppure è solo l’ennesimo tentativo (vano) di non far affondare una barca che sta già imbarcando acqua da un pezzo.

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