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Il Mezzogiorno in una nuova prospettiva europea

La “questione meridionale” torna a fare capolino nel dibattito sul Recovery Plan, facendo riemergere antiche dispute riguardanti i tanti gap tra il nord e il sud del Paese. E non si tratta soltanto di divari economici. Ce ne parla la parlamentare europea Pina Picierno.

 

La globalizzazione nel postpandemia, il divario di genere, generazionale e territoriale nel Pnrr. Ma anche le posizioni meridionaliste insieme alla qualità e quantità degli interventi necessari. Ne parliamo con Pina Picierno, parlamentare europea, componente della Commissione Agricoltura (Agri) e della Commissione diritti delle donne e uguaglianza di genere (Femm) al Parlamento europeo.

Parliamo di Pnrr e di utilità per il Mezzogiorno nel periodo che verrà immediatamente dopo la pandemia…
«Comincerei subito col dire due cose di contesto. La prima è che bisogna riflettere di questo tema non solo in chiave nazionale. Sono convinta, come molti analisti hanno già avuto modo di rilevare, che il mondo postpandemia non sarà lo stesso mondo con cui abbiamo avuto a che fare prima di quest’anno orribile. Non necessariamente sarà un bene, ma ci troveremo di fronte a un mondo le cui catene del valore, i cui assi di sviluppo, saranno necessariamente più corte. Il prezzo che pagheranno alcuni aspetti della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta, sarà enorme, sia in termini prettamente industriali e di scambi commerciali, che in termini culturali. La recentissima vicenda di Suez in qualche modo lo testimonia plasticamente, così come la stessa questione dei vaccini ne è esempio di non poco conto. Questo avvantaggerà le catene di valore corte, per l’Europa del sud e il Mediterraneo in particolare, affidando al Mezzogiorno una funzione potenzialmente di primaria importanza. La seconda valutazione di contesto è relativa allo stesso Next Generation: credo sia la più nitida dimostrazione di un assunto. La questione meridionale, per utilizzare un termine magari vecchio ma non superato, può trovare sua graduale soluzione solo nella prospettiva europea e continentale».

E non è stato così fino a ora?
«No, non è stato così fino a oggi, la Politica di Coesione si è dimostrata insufficiente così come ancora più inadeguata è stata la sua interpretazione nazionale e meridionale. In alcuni Paesi ha funzionato e sta funzionando. Nel nostro assai meno. Leggo nel combinato disposto di investimenti pubblici mirati e riforme di sistema strutturali previsto dal Next Generation e dalle bozze del Piano Nazionale fin qui circolate, un deciso cambio di passo, almeno nelle dichiarazioni d’intenti e negli impegni assunti. Bisogna però, senza tema di smentita, ammettere che fin qui, dei tre obiettivi trasversali del Piano Nazionale, e in particolare della valutazione d’impatto su questi tre obiettivi, navighiamo ancora a vista, come tra gli ultimi ha rilevato la stessa V Commissione della Camera dei deputati. In una parola, non è ancora chiaro come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza impatti sui divari che la Commissione e il Parlamento Europeo hanno indicato come essenziali: divario di genere, generazionale e, appunto, territoriale».

In che modo il Parlamento e la Commissione europea hanno immaginato di ridurre questi divari?
«Attraverso sia la componente di investimenti, sia quella di riforme delineate che riguardano in particolare, utile ricordarlo, fisco, lavoro e giustizia. Proprio in questo, se mi è consentito, ravviso un affanno nelle posizioni meridionaliste, anche in quelle più avanzate. Ho letto nei giorni scorsi due ottimi contributi sul tema, uno di Fabrizio Barca e l’altro di Isaia Sales. Ovviamente, non trattandosi di saggi, vanno letti nella loro parzialità. Entrambi si concentrano, a giusta ragione, sulla quantità di risorse disponibili per il Mezzogiorno e su quanto queste siano decisive anche per affrontare il tema del rinnovamento della classe dirigente meridionale. L’assioma più risorse = più responsabilità = migliore classe dirigente è certamente vero e verificabile. Così come è lampante la differenza di investimenti nazionali nel confronto tra la Germania postunificazione e il nostro Paese. Per la sua parte est, la Germania ha investito ogni anno circa il 5% del pil, per il Mezzogiorno l’Italia a stento l’1%. È del tutto evidente che veniamo da un trentennio in cui la retorica antropologica del fannullone ha coperto le insufficienze e furbizie nazionali ai danni del meridione. Così come ho trovato molto utile che, in particolare in Barca, si insista sui livelli di servizi e prestazioni essenziali. Che non riguardano solo la sfera sanitaria, ma tutti i servizi, a partire da quelli per l’infanzia, di cui il Mezzogiorno è particolarmente carente e che sono non solo ingiuste ma pure un freno allo sviluppo delle nostre aree».

Quindi lei sostiene che questi investimenti siano parziali?
«Senza dubbio quantità e qualità degli investimenti saranno essenziali per ridurre il divario. Divario che nel Mezzogiorno non è solo territoriale: quello di genere e quello generazionale hanno essi stessi un peso specifico nel meridione che non va assolutamente dimenticato. Il Mezzogiorno è una strana medaglia a tre facce, che include tutti e tre i divari e che sono una delle ragioni principali per cui è stata riconosciuta all’Italia la quota maggiore di risorse del Next Generation in ambito europeo. Non per farne rivendicazione, ma non va dimenticato».

Che cosa non possiamo permetterci di sottovalutare o tralasciare?
«Ci sono due questioni che non possono essere sottovalutate. La prima riguarda la programmazione ordinaria dei fondi europei, quelli del Qfp 2021/27 per intenderci. Ravviso una pericolosa sottovalutazione di risorse che aggiunte e coordinate con quelle del Recovery possono davvero segnare una svolta. Si tratta, per le Regioni meno sviluppate del Paese, di circa 34 miliardi di euro per il Por. Le performance amministrative delle precedenti programmazioni sono state assai deludenti, sia in termini di quantità di risorse utilizzate, sia in termini di efficacia della spesa sul pil e sull’occupazione. E ravviso la stessa preoccupante sottovalutazione, anzi ancor più preoccupante, sulla componente delle riforme del Pnrr. Ecco, qui vedo un certo affanno nelle posizioni meridionali. Io sono convinta che il capitolo investimenti pubblici resti il capitolo principale, soprattutto in virtù del trentennio che abbiamo alle spalle. Ma dobbiamo saperlo per tempo, da soli non basteranno se non accompagnati da una profonda riforma del sistema Paese, riforma che è ancora più urgente nel Mezzogiorno. Non nascondiamocelo: abbiamo un sistema fiscale iniquo che penalizza il lavoro e l’impresa, un mercato del lavoro sperequato ai danni di donne e giovani, un’amministrazione della giustizia, in particolare civile e amministrativa, lenta e inefficace. E aggiungo un funzionamento della Pubblica Amministrazione ancora insufficiente. Nel sud del Paese questi ritardi pesano il doppio. Io, anche in questi nodi, vedo la possibilità, anzi l’opportunità per il Mezzogiorno, di contribuire alla rinascita del Paese, perché più grande che nel resto di esso è l’urgenza di portare a compimento queste riforme, che pure sono previste nel Pnrr ma di cui, devo dire, fin qui non ne ho capito se non per sommi capi e vagamente, le proposte».

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