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I freni tirati dell’imprenditoria femminile

Poca conoscenza delle opportunità offerte, scarsa fiducia in forme di finanziamento alternative alle banche e un profondo problema culturale di base. Sono questi gli elementi che frenano l’imprenditoria femminile in Italia, come spiega Claudia Segre, presidente di Global Thinking Foundation.

 

di Andrea Ballocchi

 

La strada da percorrere nell’imprenditoria femminile è ancora in salita. Oggi in Italia solo il 22% delle imprese è guidato da donne e ancora più bassa è la percentuale di imprese giovanili femminili: poco più di 11 su 100 di quelle guidate da donne (fonte: V Rapporto Nazionale Imprenditoria Femminile 2022 di UnionCamere – Centro Studi Guglielmo Tagliacarne).

Il risultato è la conseguenza di una situazione che vede le donne penalizzate anche nel mondo del lavoro. Sono infatti spesso sottopagate (lo stipendio di una donna è mediamente inferiore del 31% rispetto a un uomo e, anche se laureata, guadagna il 20% in meno) e poco considerate quando si parla di opportunità di carriera.

C’è poi un altro problema, ben più grave anche se poco conosciuto: la violenza economica. Un fenomeno diffuso e spesso sottovalutato, persino da chi ne è vittima. Diventa quindi necessario farlo conoscere e promuovere iniziative mirate per contrastarlo. Anche per questo fine è nata e opera la Global Thinking Foundation, la cui finalità è promuovere una cultura di cittadinanza economica tra studenti meno abbienti, famiglie e risparmiatori, sostenendo i Global Goals dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Fondatrice e presidente è Claudia Segre una delle più accreditate esperte di finanza e attiviste per la parità di genere in Italia. La stessa fondazione ha da poco pubblicato un Manuale di prevenzione della violenza economica, frutto di almeno cinque anni di esperienza diretta sul tema.

Global Thinking Foundation ha tra i suoi principali obiettivi la prevenzione all’abuso finanziario e la violenza economica. L’impianto progettuale della fondazione parte proprio dalla consapevolezza dell’importanza dell’uguaglianza di genere, uno dei 17 obiettivi di Agenda 2030. Ma nelle linee programmatiche si ritrovano anche i temi basilari della Convenzione di Istanbul del 2011, dove viene citata per la prima volta la violenza economica. «È un trattato internazionale nel quale i Paesi firmatari si impegnano a mettere in atto tutta una serie di azioni e normative nel riconoscimento che vari tipi di violenza», ci dice subito Segre. «E tale Convenzione, seppure ratificata dall’Italia nel 2013, non è mai stata attuata. A questa si aggiunga anche la Convenzione 190 dell’Ilo (l’Organizzazione internazionale per il lavoro), il primo trattato internazionale contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro. Anch’essa è stata ratificata due anni fa dal nostro Governo, ma non è mai stata attuata».

 

Da una parte il grave fenomeno della violenza economica, dall’altra la difficoltà di accesso al credito per le donne, che ostacola lo sviluppo dell’imprenditorialità femminile. Qual è la situazione che si vive in Italia su questo aspetto?

«Come fondazione svolgiamo un grande lavoro di formazione rivolto a tutte le fasce più fragili e in particolare alle nuove generazioni, che statisticamente hanno meno competenze economiche e finanziarie. Quest’attività, svolta in collaborazione con Confartigianato Confcommercio e Fipe, la Federazione italiana dei pubblici esercizi, è dedicata proprio alle imprenditrici. Considerato che nel Paese abbiamo circa il 22% di imprese a conduzione femminile, sappiamo che queste forniscono riscontri positivi in termini di solidità, di saldo dei prestiti, di longevità, di lungimiranza nel business, di tenuta creditizia. Tuttavia non si ravvisa un supporto da un punto di vista finanziario così solido, regolare, continuativo come si nota invece nel caso di altre imprese. Questo, a mio avviso, dipende da vari problemi, uno dei quali è la poca conoscenza di opportunità offerte, per esempio dal fintech. In un sondaggio svolto con Fipe è emerso che due terzi delle donne si rivolge alle banche, per il resto ad amici, parenti, alla famiglia. La considerazione nei confronti del potere di finanziamento delle piattaforme digitali è pari a zero. Manca la conoscenza, l’utilizzo e la fiducia nel rivolgersi ad altre forme di finanziamento alternative alle banche. Queste ultime presentano dei limiti, uno dei quali è la mancanza di sistemi di credit scoring, metodo statistico per la valutazione dell’affidabilità creditizia che tiene conto di fattori anche discrezionali. In altre parole, se si affronta una pratica di credito esclusivamente con un modello di rating creditizio, qualitativo e quantitativo fisso, si fa fatica a classificare un’impresa con una grande vocazione internazionale o, ancora peggio, una startup. A ciò si aggiunge il fatto che nel momento in cui la denominazione d’impresa al femminile non è ben delineata nei vari settori, il rischio che corrono tante realtà guidate da donne, come quelle del settore agricolo, è che non vengano accolte le loro richieste o che vengano penalizzate».

 

Che cosa serve quindi?

«Occorre un migliore aggiornamento della denominazione di impresa al femminile più aderente alla realtà italiana attuale e una puntuale verifica che la presenza delle donne sia effettivamente operativa e funzionale e non opportunistica. Inoltre è necessario aumentare la percezione degli istituti finanziari perché affinino una considerazione più egualitaria nella verifica creditizia. Purtroppo sono molti i casi di donne che si rivolgono ai nostri sportelli perché le richieste creditizie non sono state prese in considerazione, sopravvalutando in negativo il fatto che fosse una donna a chiedere denaro. Servirebbe anche un lavoro di formazione dei dipendenti e di coloro che si occupano di merito creditizio. Questo aiuterebbe ad avere una migliore lettura del tessuto produttivo italiano anche nei confronti delle imprese».

 

A proposito di finanziamenti pubblici, quali sono invece le potenzialità e i limiti?

«Partiamo da un presupposto. Scontiamo, purtroppo, una mancanza di rappresentanza femminile in tantissimi settori produttivi nei quali si orientano i finanziamenti pubblici. Ciò accade perché c’è un gap di competenze tecnico-finanziarie, ma anche in termini di materie scientifiche. Questo comporta una minore presenza di donne pronte a occupare spazi di produttività riguardanti, per esempio, l’ambito della cybersecurity, dell’ingegneria finanziaria o altri settori ad alta incidenza tecnica. Ci sono troppe poche donne nel fintech, nell’insurtech e nel proptech. Ed è un peccato, perché sono tutti settori nei quali le donne potrebbero essere determinanti. In Italia scontiamo quindi un problema culturale di base, in ambito tecnologico-scientifico e in settori produttivi molto sfidanti e di grande cambiamento caratteristici di una transizione digitale che stiamo vivendo e che il Pnrr incentiva».

 

Quali sono i settori nei quali la presenza femminile è invece più forte?

«Nel Terzo settore la presenza è molto sensibile e diffusa. Penso alle associazioni, ai centri antiviolenza, alle fondazioni. Qui le donne hanno un ruolo trainante nei progetti che si inseriscono nelle linee di finanziamento pubblico e privato. Nel settore delle costruzioni c’è poca presenza imprenditoriale femminile. Invece si stanno facendo strada nel settore primario. Basti pensare, in quest’ultimo caso, al settore vitivinicolo in Sicilia, gestito pressoché totalmente da donne. Tuttavia si sconta una barriera culturale partecipativa evidente da un punto di vista sociale che non favorisce l’approccio delle donne a determinati settori».

 

Torniamo al Pnrr. Quali potenzialità ha o può avere in termini di empowerment femminile?

«Partiamo dai limiti. Nel Piano nazionale ripresa e resilienza solo un quinto del totale risorse (45 miliardi di euro, nda.) è destinato a finanziare il patrimonio umano, ossia quel capitale centrale per lo sviluppo della nostra società e utile per attivare un cambiamento culturale effettivo. Per quanto riguarda le potenzialità del Pnrr va considerato il fatto che molte delle risorse investite, pur senza avere una connotazione prettamente femminile, sono però dirette verso quei settori in cui le donne sono presenti. Penso, per esempio, agli ambiti educativi, quelli dell’istruzione e ricerca, della formazione e in parte della digitalizzazione, nei quali le donne sono ben presenti. In tutti questi casi i fondi del Pnrr costituiranno una leva notevole per incoraggiare l’emersione della presenza femminile nel cambiamento culturale del Paese. Quindi, pur in un quadro di luci e ombre, rappresenta una grossa opportunità per le donne».

 

 

 

 

 

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