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Fitzcarraldo: dire, fare, sperimentare cultura

Alessandra Gariboldi, neopresidente di Fitzcarraldo, ci racconta le sfide che attendono la fondazione nei prossimi mesi, a cominciare dalla sostenibilità dell’intervento sociale, dal ruolo della partecipazione attiva, fino alla sperimentazione di modelli culturali innovativi.

di Marianna Iacoviello

 

La Fondazione Fitzcarraldo è una storica realtà torinese che da oltre vent’anni svolge attività di ricerca e consulenza per le organizzazioni culturali, accompagnando gli operatori nello sviluppo e nel consolidamento delle competenze. Un impegno costante che necessariamente ha dovuto adattarsi a un contesto sociale ed economico ormai mutato.
Oggi più di ieri il settore culturale necessita di dialogare con gli attori del territorio ed è essenziale che ci siano sforzi congiunti anche da parte di istituzioni per rafforzare le relazioni e migliorare le capacità manageriali.
La volontà di Fitzcarraldo è di seguire queste evoluzioni nell’interesse generale di un settore fortemente colpito dall’emergenza Covid, nell’ottica di sostenibilità delle organizzazioni e dell’accrescimento del valore generato nel tempo anche in una prospettiva europea. Ne parliamo con la neopresidente, Alessandra Gariboldi, dal 2019 responsabile dell’area Progetti Transnazionali, che ha una solida esperienza in cooperazione internazionale e audience development.

 

Lei diventa presidente in un momento storico caratterizzato da una crisi economica gravissima e nel pieno dell’incertezza generata dalla pandemia. Quali sono le sfide più urgenti che l’attendono in Fitzcarraldo nei prossimi mesi?

«Le sfide sono in parte quelle di sempre, in parte nuove. La madre di tutte le sfide per il settore culturale è la sostenibilità. Su questo ci viene oggi in aiuto una visione più integrata che lega la sostenibilità economica a quella sociale e ambientale, che sarà il terreno su cui si giocherà la sopravvivenza del settore e la sua necessaria trasformazione. Ci muoviamo su due binari. Da un lato la ricerca e sperimentazione di modelli innovativi, come nel caso del filone della partecipazione che attraverso diversi progetti cofinanziati dalla Commissione Europea abbiamo sperimentato sia come approccio creativo (BeSpectactive!), sia come campo di co-design per lo sviluppo di competenze soft (Dancing Museums), sia come modello di intervento per l’innovazione organizzativa “relazionale” (Adeste+). Per noi l’innovazione sta sempre nell’incontro di mondi diversi e la cooperazione transnazionale è un terreno elettivo per sperimentare e imparare».

 

E il secondo binario?

«Il secondo filone che rafforzeremo è quello dell’accompagnamento ai territori in processi di sviluppo a base culturale: dallo sviluppo di partenariati pubblico-privati per il riuso di beni in abbandono, alla formazione degli operatori. Infine, per riuscire a “essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”, nel nostro piano strategico ha un ruolo importante anche il benessere organizzativo, una dimensione che nel mondo non profit tendiamo sempre a dimenticare ma che è fondamentale per una vera sostenibilità».

 

La formazione è fondamentale per guidare gli enti non profit verso una cultura d’impresa, elemento debole che caratterizza da sempre tutto il mondo del Terzo settore. Che cosa avete in cantiere in questo senso?

«La formazione degli operatori è sempre stato un bisogno percepito e una parte fondamentale della nostra attività. Nel tempo ci è apparso sempre più chiaro che non si tratta solo di “managerializzare” il settore, di renderlo più efficiente, ma anche e soprattutto di renderlo più adattabile al contesto attuale e ai repentini cambiamenti. Il digitale non è solo una sfida tecnica ma profondamente culturale, le soft skills vanno sviluppate e allenate, e soprattutto la diversità è un valore inestimabile. Certi strumenti continuano a funzionare, sono quadri di riferimento imprescindibili. Per fare cultura bisogna avere una forte competenza progettuale, conoscere l’impalcatura su cui costruire, ma anche affinare la propria capacità di ascolto e di co-design non solo con stakeholder diversi, i nostri alleati per il cambiamento, ma anche con le proprie comunità di riferimento. Cioè quelli che abbiamo sempre chiamato “pubblici” ma che in realtà sono la risorsa fondamentale con cui costruire una cultura capace di includere a dare voce anche a chi non ce l’ha».

 

La Fondazione conduce studi e ricerche in più ambiti per analizzare il mondo delle organizzazioni artistiche culturali da prospettive differenti. Quanto investe Fitzcarraldo annualmente in ricerca e quali sono le caratteristiche dell’approccio metodologico che utilizzate?

«La ricerca ricopre circa un terzo del nostro budget ed è per noi è un’area strategica su cui si investe soprattutto a livello internazionale, mentre a livello nazionale è centrale l’azione dell’Osservatorio Culturale del Piemonte, che da oltre vent’anni raccoglie, sistematizza e soprattutto investiga le dinamiche di produzione e partecipazione culturale in Regione. Il nostro approccio alla ricerca non è solo teorico in quanto riconosciamo la complessità e la investighiamo costantemente con la consapevolezza che la conoscenza deve essere pratica per riuscire a essere funzionale. La nostra ricerca è quindi sempre operativa e ogni competenza è trasversale abbracciando urbanistica, architettura, statistica, sociologia ed economia. Ad esempio il mio background è di tipo storico-artistico ma l’approccio sociologico è cresciuto in Fitzcarraldo insieme a me e ad altri colleghi negli ultimi dieci anni. Lo scopo è appunto quello di avere contributi da diversi ambiti e fare in modo che ogni peculiarità consenta di raggiungere obiettivi utili e comprensibili che siano in grado di essere messi in campo attraverso vie di azione praticabili».

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