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Donne e lavoro, tra invisibilità e deprezzamento

Susanna Camusso

In Italia meno di una donna su due lavora. E quel che è peggio è che figli e lavoro continuano a essere due opzioni inconciliabili. Ne parliamo con Susanna Camusso, responsabile delle Politiche di Genere della Cgil.

di Alessandro Battaglia Parodi

L’Italia è da sempre la Cenerentola d’Europa per quanto riguarda l’occupazione femminile. Ma la situazione è ulteriormente peggiorata con la pandemia, soprattutto al Meridione, dove è precipitata di oltre trenta punti rispetto alla media europea (32,2% contro 62,4%, dati Eurostat 2021). Il report Bilancio di genere 2021 del Dipartimento della ragioneria generale dello Stato colloca inoltre l’occupazione femminile in Italia al 49%. E si tratta del dato peggiore dal 2013. Insomma, il problema è ormai diventato strutturale? Lo abbiamo chiesto a Susanna Camusso, responsabile delle Politiche di Genere della Cgil nazionale.

Camusso, come si può invertire questo meccanismo che sembra quasi ineluttabile, deterministico?
«Il tema dell’occupazione femminile è da sempre sottovalutato e non affrontato. Il nostro sistema di welfare, sempre più ristretto, considera il lavoro di cura una prerogativa comunque femminile e la famiglia una sorta di welfare privato sempre disponibile. L’art.3 della Costituzione dà invece tutt’altra indicazione, ma la miopia patriarcale ne ha sempre boicottato una seria applicazione. Basterebbe ricordare che la legge istitutiva e corredata di obiettivi sugli asili nido è del 1971, e ancora dobbiamo applicarla. Questa è la storia e l’attualità, vale a dire l’assenza di servizi che ovviamente penalizza innanzitutto i bambini oltre che gli anziani. La cosiddetta “deregolamentazione” del mercato del lavoro ha ulteriormente aggravato la condizione femminile. Part time involontari, contratti a termine di pochi giorni, sono spesso le uniche proposte di lavoro che incontrano le giovani donne. Sarà un caso ma in tutte le riforme definite abilitanti che accompagnano e vincolano il Pnrr non c’è la riforma del mercato del lavoro, privando la tanto sbandierata priorità trasversale per giovani, donne e mezzogiorno, dello strumento fondamentale. Se invece di continuare a moltiplicare bonus e decontribuzioni si investisse in servizi, scuola a tempo pieno, congedo di paternità obbligatorio e contrasto alle forme precarie di lavoro, scopriremmo che non siamo condannati né alla disoccupazione delle giovani donne, né alla denatalità. Sottolineo inoltre che le sole decontribuzioni che non hanno prodotto significative assunzioni strutturali, pesano per 21 miliardi nel bilancio ordinario annuale».

Ci sono tre Regioni del Sud in cui il tasso di occupazione va anche peggio, come la Campania (28,7%), la Calabria (29%) e la Sicilia (29,3%, dati Eurostat 2021, ndr). Proprio le Regioni che non hanno saputo approfittare dei bandi del Pnrr per gli asili nido, ambiti lavorativi tipicamente femminili che libererebbero il lavoro delle donne bloccate ad accudire i piccoli. Insomma, ci sarebbe stato un doppio guadagno. Che cosa sta succedendo al Sud?
«Innanzitutto credo vada sempre tenuto presente lo squilibrio esistente nel Paese che penalizza il Mezzogiorno per investimenti, assenza di politiche industriali, frequente sottrazione di risorse ridestinate al Nord. Tra i vari squilibri, quello sulla condizione femminile e giovanile è uno dei più evidenti, e spesso lo troviamo confermato dai processi di migrazione al Nord che persistono. La struttura pubblica, amministrativa, lo stesso servizio sanitario nazionale, sono spesso indicati per le loro carenze. Confermando così che tagli lineari, blocco delle assunzioni pubbliche e continue logiche di accreditamento senza criterio dei privati, hanno ampliato le diseguaglianze e spogliato tanta parte del Mezzogiorno, e non solo, delle competenze e del personale necessario a un’efficace amministrazione pubblica. Consiglio a tutti, prima di storcere il naso, di guardare il rapporto abitanti/dipendenti pubblici degli altri Paesi europei per farsi un’idea. Il tema è così evidente che tutti sappiamo delle difficoltà di avanzamento del Pnrr, della carenza di personale, delle difficoltà a progettare la messa in opera delle missioni. I bandi andati deserti sono in parte causati da questo e anche dall’incertezza di chi farà funzionare quelle opere che non sono accompagnate da fondi nel bilancio ordinario, innanzitutto per la fascia 0-6, ovvero asili nido e scuole dell’infanzia, ma anche per il tempo pieno nell’istruzione primaria».

Parliamo delle lavoratrici cosiddette “invisibili”, quelle che durante la pandemia si sono prodigate per la cura, dove per cura intendiamo ogni tipo di caregiving, dal lavoro in ospedale, all’asilo nido o nella casa di riposo, fino ovviamente ad abbracciare ogni tipo di impegno in ambito famigliare, come il lavoro domestico, la cura degli anziani, dei figli ecc. Se questo lavoro di cura fosse monetizzato, a quanto ammonterebbe in termini di Pil? E secondo lei sarebbe possibile tradurlo in assegno ordinario per madri e casalinghe, al di là della logica estemporanea e d’emergenza dei cosiddetti “bonus”?
«Prima di tutto è utile ricordare che durante il lockdown due terzi delle lavoratrici occupate nel nostro Paese erano al lavoro in presenza, perché impegnate nelle attività essenziali. Quelle che, sappiamo tutti, hanno permesso a ognuno di vivere abbastanza bene durante la fase più acuta della pandemia. E, va detto, continuano tutt’ora a essere essenziali. Tanto acclamate durante la pandemia ma già tornate invisibili. Perché non le vediamo e non le riconosciamo. Perché diamo per scontato il loro lavoro e non gli attribuiamo valore. Perché sono precarie e mal retribuite nell’infinito mondo degli appalti e dei subappalti. Oxfam nel 2019 ha pubblicato un rapporto nel quale si dimostrava che il lavoro gratuito delle donne tra 15 e 64 anni nel mondo vale tre volte l’ammontare della produzione e dei servizi digitali, sempre nel mondo. Le statistiche ci dicono quante ore giornalmente le donne impiegano nei lavori di cura, domestici e di organizzazione familiare. Lavoro non monetizzato, gratuito e svilito. Non riconosciuto e non valorizzato ai fini previdenziali, perfetto esempio di una falsa parità tutta a svantaggio delle donne. Non penso che la soluzione sia quella di tradurlo in lavoro ordinario rinchiudendo così le donne nelle case e nel ruolo di cura come missione immodificabile. Non ci sarebbe nulla di naturale, ma sarebbe un’ulteriore discriminazione e penalizzazione. Penso invece che occorra condividere, applicare la Costituzione e attuare i servizi, e per farlo serve valorizzare il lavoro di cura e renderlo desiderato da tutte e tutti invece di continuare la narrazione che solo i cosiddetti ruoli maschili hanno valore».

Non crede che esista un meccanismo culturale piuttosto rodato per cui, nei momenti storici di crisi economica e quindi con un’offerta di lavoro drasticamente diminuita, il sistema economico-culturale incoraggia le donne a restare nel focolaio ad accudire famigliari e a costringerle nel ruolo di casalinghe, migliorando così le economie domestiche, con un reddito diventato unico e la cui origine torna a essere soltanto maschile?
«Credo che più che un generico meccanismo culturale si tratti di patriarcato. Sia cioè quell’idea secondo cui la scena pubblica è degli uomini e noi donne siamo ammesse solo come comprimarie e solo se ci omologhiamo. La malintesa idea che parità significa essere e fare come gli uomini è la trappola del non riconoscimento del valore delle donne, del rifiuto delle diversità, della negazione di valore. Certo, nei momenti di crisi può essere più evidente, ma il sottinteso che quello femminile è il secondo lavoro, quello che aiuta non la propria realizzazione, ma la famiglia, lo vediamo anche nelle fasi positive. È, come dimostra il divario in politica e nelle istituzioni, un problema di potere e come tale va considerato e conquistato senza sconti, senza dover dimostrare come invece ogni volta ci viene chiesto».

Durante il New Deal rooseveltiano la pubblicità arrivò addirittura a scoraggiare le donne a cercare lavoro stigmatizzandole come vanesie, volgari, egoiste, disinteressate ai figli e alla famiglia. Arriveremo presto anche noi a queste formule subdole e accusatorie nei confronti delle donne che vogliono lavorare?
«Non accadde solo nel New Deal, negli anni Settanta mi sentii dire che rubavo il lavoro agli uomini. Sappiamo che qualcuno ha pensato che, per esempio, si potevano licenziare o mettere in cassa integrazione soltanto le donne. Grazie alle lotte del sindacato e delle donne sono vietate forme discriminatorie di questo tipo, ma altre più subdole, come il part-time involontario, sono ampiamente utilizzate. Bisogna affinare la nostra capacità di individuare le discriminazioni indirette oltre a quelle dirette. Le donne studiano di più e hanno risultati migliori, dove c’è maggior occupazione femminile non c’è la crisi di denatalità profonda come quella italiana. E mi pare chiaro che chi pensa e propone quel modello è fuori dalla storia e dal progresso».



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