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Crowdfunding e Terzo settore? Si può fare!

Ancora poco conosciute, le formule di crowdfunding a disposizione degli enti del Terzo settore sono sempre più interessanti. Ecco una veloce rassegna delle diverse possibilità raccontata da un’esperta di platform economy.

di Antonio Nastri

 

Parlare di crowdfunding nel mondo del Terzo settore può sembrare strano e, soprattutto, fuori luogo. Accade perché solitamente il termine crowdfunding è associato alla realizzazione di campagne pensate per finanziare iniziative “profit” e, soprattutto basate sulla promessa di riconoscere ai finanziatori un compenso, un vero e proprio ritorno dell’investimento sostenuto, in caso di successo dell’iniziativa.

Per gli enti del Terzo settore questa dinamica non può essere valida, poiché essi non hanno fini di lucro e non possono riconoscere interessi o compensi finanziari agli investitori. Se il crowdfunding tradizionale non è applicabile per gli Ets, nuove modalità di crowdfunding specifiche per il Terzo settore sono emerse negli ultimi anni, supportate anche dallo sviluppo di piattaforme dedicate per la raccolta dei fondi.

Ne discutiamo con Ivana Pais, docente di Sociologia economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, esperta di reti sociali e studiosa di platform economy.

Esiste una modalità di crowfunding specifica per il Terzo settore?
«Certamente. Basta scostarsi dal tradizionale modello di Equity Crowdfunding, tipico delle iniziative profit, per orientarsi verso modalità alternative, che non prevedano un compenso monetario per il finanziatore che sostiene con risorse proprie una specifica iniziativa o progetto. Se parliamo di Terzo settore, possiamo distinguere due modalità principali di crowdfunding: la modalità “donation-based” e quella “reward-based”. Nel primo caso il finanziatore non percepisce alcun compenso per il suo contributo e quest’ultimo rappresenta una vera e propria donazione; nel secondo caso, riceve una ricompensa, non in denaro, come ringraziamento per il suo sostegno. Inoltre bisogna considerare che le iniziative di equity e reward crowdfunding si basano solitamente sulla formula “all or nothing”. Ciò significa che la donazione diventa effettiva solo nel momento in cui la campagna raggiunge l’obiettivo di raccolta dichiarato. Nel caso degli enti del Terzo settore prevale la formula “take it all”: la donazione viene erogata anche se la campagna non raggiunge l’obiettivo. Questo è possibile proprio perché non c’è la promessa di un premio o di un ritorno dell’investimento da riconoscere al donatore».

Così descritto, il crowdfunding diventa uno strumento per ricevere donazioni. Non c’è il rischio di generare confusione nella mente dei possibili contributori o la possibilità che il crowdfunding si sovrapponga alle attività di fundraising spesso già condotte dagli enti del Terzo settore?
«Fundraising e crowdfunding hanno l’obiettivo di favorire la raccolta di fondi utili a sostenere le attività dell’ente e si basano sulla capacità da parte dell’ente di comunicare la propria presenza e le proprie iniziative al mercato. Al di là di queste analogie, ci sono notevoli differenze. Il fundraising è un’attività continuativa svolta dagli enti del Terzo settore. Si basa sulla raccolta di donazioni mediante le quali l’ente sostiene diverse attività. Il crowdfunding invece è un’iniziativa a carattere occasionale, mediante la quale l’ente lancia una campagna di raccolta per finanziare uno specifico progetto o iniziativa. Per questo motivo esso ha un’azione più mirata rispetto al fundraising e consente al donatore di verificare anche la reale utilità del proprio contributo, nella misura in cui il progetto viene portato a compimento. Altra differenza è che il crowdfunding si basa sull’utilizzo di una piattaforma online mediante la quale l’ente presenta il proprio progetto e dichiara l’obiettivo di raccolta da raggiungere per poterlo realizzare. Tramite la piattaforma il contributore può non solo effettuare la propria donazione ma anche verificare quanti fondi sono stati già raccolti e quanti ne mancano per raggiungere pienamente l’obiettivo».

Ci sono piattaforme specifiche per il crowdfunding in ambito sociale?
«Sì. Esistono numerose piattaforme specifiche per il Terzo settore. Alcune di esse sono organizzate per ambiti tematici. Hanno, per esempio, una sezione dedicata ai progetti culturali, alla sanità, all’educazione e così via. Altre piattaforme sono invece dei contenitori più generalisti in cui coesistono all’interno dello stesso spazio web proposte anche molto differenti tra loro. Nonostante questo nell’ultimo anno si è registrato un crescente utilizzo di piattaforme a scopo di personal fundraising più che di crowdfunding. Non si tratta dunque di organizzazioni che raccolgono fondi per un proprio progetto ma persone che decidono di fare una raccolta fondi, anche per organizzazioni del Terzo settore. Basti pensare all’utilizzo di GoFundMe, la piattaforma utilizzata da Fedez e Chiara Ferragni per raccogliere fondi per il San Raffaele di Milano durante il lockdown. GoFundMe può essere utilizzata da un privato cittadino anche per finanziare la propria festa di compleanno. Tuttavia l’essere stato impiegato da due influencer per una campagna di successo ha fatto sì che anche altri, singoli cittadini o organizzazioni del Terzo settore, utilizzassero il medesimo strumento».

Cosa cambia nella scelta di affidarsi a una piattaforma di crowdfunding o a una di personali funding?
«Le piattaforme di crowdfunding, soprattutto quelle italiane, hanno strumenti di verifica e controllo particolarmente sofisticati, a garanzia di chi sceglie di effettuare una donazione. Per esempio, se un privato cittadino decide di lanciare una campagna di raccolta fondi per un ospedale e si affida a una piattaforma di crowdfunding, questa, prima di avviare la campagna, procede a verificare il consenso dell’ospedale a sostenere una raccolta in suo nome. Su alcune piattaforme multinazionali, soprattutto nella prima fase dell’emergenza pandemica, questo controllo preliminare non è stato previsto e hanno adeguato la procedura solo dopo aver riscontrato importanti criticità. Cosa che è successa, ad esempio, per ospedali che non erano in grado di ricevere i fondi a loro destinati dai donatori».

Quanto è diffusa oggi la pratica del crowdfunding tra gli enti del Terzo settore?
«È un fenomeno in costante crescita, anche a seguito della notorietà ottenuta grazie all’esperienza della campagna di Fedez e Ferragni di cui ho parlato prima. Bisogna però chiarire che, se è vero che i due influencer hanno aperto la strada facendo conoscere le opportunità del crowdfunding a una platea sempre più estesa, è altrettanto vero che il bisogno degli enti del Terzo settore di esplorare nuove modalità per finanziare le proprie attività era già forte. Un contributo allo sviluppo lo ha dato anche l’esperienza del lockdown, che ha inevitabilmente costretto tutti gli enti a migrare verso canali digitali di raccolta di fondi e donazioni. Possiamo infatti distinguere la storia del social crowdfunding in Italia in due periodi distinti: la fase prelockdown, caratterizzata da un interesse nei confronti di questa pratica in crescita costante ma limitata, e la fase successiva, segnata dalla crescente proliferazione di campagne di crowdfunding sociale».

Si può quindi affermare che il lockdown abbia rappresentato un fattore abilitante per lo sviluppo del social crowdfunding?
«È vero, anche se ne ha condizionato molto gli ambiti tematici, soprattutto nelle fasi iniziali. Nei primi mesi di lockdown la maggior parte delle campagne era finalizzata a raccogliere fondi per iniziative in ambito sanitario. Si effettuavano donazioni per potenziare le dotazioni di macchinari, attrezzature e dispositivi sanitari per gli ospedali e le case di cura. Successivamente, si è sviluppata una seconda fase, in cui le campagne si sono orientate su problematiche sociali di tipo non sanitario, ma comunque legate al Covid, come ad esempio le raccolte fondi per acquistare tablet e Pc per gli studenti in Dad. Oggi, pur non essendo ancora usciti dall’emergenza sanitaria, siamo entrati in una nuova fase del crowdfunding di tipo “donation”, in cui le campagne sono dedicate a problematiche sociali di più ampio respiro, non necessariamente legate all’esperienza del Covid».

Possiamo quindi dire che il social crowdfunding è entrato nella fase di maturità?
«Sì, anche se il percorso evolutivo del fenomeno non si è ancora assestato e stanno emergendo nuove e più interessanti forme di crowdfunding. Mi riferisco soprattutto a quello che viene definito “civic crowdfunding”, cioè alla collaborazione tra enti del Terzo settore e Pubblica amministrazione per la realizzazione di iniziative sociali congiunte. La formula si basa su una logica di match-funding. L’Ets si impegna a lanciare una campagna di crowdfunding e a raggiungere determinato obiettivo di raccolta. Se questo obiettivo viene raggiunto, l’ente della Pa, tipicamente il Comune, fornisce il proprio contributo, il cui valore è concordato prima della campagna, e il progetto può essere realizzato. In un certo senso è la riproposizione della formula “all or nothing” adattata al Terzo settore. In alcune esperienze internazionali il moltiplicatore non viene parametrato solo sul valore complessivo delle donazioni ricevute ma anche sul numero di donatori che hanno partecipato alla raccolta. In questo modo il soggetto pubblico può verificare il reale interesse della comunità alla realizzazione dell’iniziativa proposta. Attualmente in Italia le esperienze di questo tipo più significative sono le campagne di crowdfunding civico promosse dal Comune di Milano».

Il ricorso al crowdfunding è adatto a tutti gli enti del Terzo settore?
«È una soluzione adatta soprattutto agli enti più piccoli e idonea alla realizzazione di progetti e iniziative di valore non troppo elevato. Questo perché il crowdfunding si basa soprattutto su microdonazioni. Obiettivi troppo ambiziosi richiederebbero un elevato numero di donatori, difficile da raggiungere, se non in situazioni eccezionali. Proprio per questo motivo, i grandi enti sono poco propensi a ricorrere al crowdfunding. Per loro è spesso più facile e meno impegnativo intercettare un ridotto numero di grandi donatori, senza considerare il rischio, in termini di immagine, nel caso in cui l’obiettivo dichiarato non venga raggiunto. Al di là di questa distinzione, qualsiasi ente deve essere preparato e consapevole dello sforzo richiesto dalla gestione di una campagna di crowdfunding, in termini di tempo e di competenze».

Quali sono allora i consigli da dare a un ente interessato ad avviare una campagna?
«Penso soprattutto a tre raccomandazioni. La prima è quella di verificare attentamente la propria community prima di avviare la campagna. L’ente deve chiedersi quanto è ampia la propria community e se essa è sufficiente per raggiungere gli obiettivi di raccolta desiderati. Questa analisi risponde alla domanda fondamentale “chi sono i miei potenziali donatori?”. La seconda raccomandazione è quella di evitare di pensare che il lavoro finisca nel momento in cui la campagna è online. Serve un piano editoriale dettagliato, da pianificare prima della campagna ed eventualmente da ricalibrare successivamente, mediante il quale comunicare l’esistenza della campagna e mantenere elevato il livello di attenzione nei suoi confronti. La terza raccomandazione è quella di prevedere risorse dedicate a gestire e presidiare la campagna. Occorre avere delle figure di riferimento che abbiano la responsabilità del monitoraggio dell’andamento della campagna e della rendicontazione dei risultati. Quest’ultima, purtroppo, è spesso l’attività più trascurata. Eppure è proprio rendendo pubblici i risultati intermedi e finali della campagna che si riesce a consolidare la relazione con i donatori».

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