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Coprogrammare e coprogettare: lo scenario italiano

Un’indagine realizzata da Secondo Welfare fa emergere una concezione ancora un po’ confusa delle pratiche collaborative da parte degli operatori del Terzo settore, mettendo in evidenza le lacune nello sviluppo di progetti in risposta a bisogni reali.

 

di Alessandro Battaglia Parodi

 

Negli ultimi anni il tema dell’amministrazione condivisa ha goduto di un notevole interesse trovando sponda nei dibattiti sulle politiche sociali e nei provvedimenti allestiti per far fronte all’emergenza della pandemia. Ma sono state soprattutto le recenti normative sull’amministrazione condivisa che hanno permesso di sdoganare pratiche quali la coprogrammazione e la coprogettazione nel processo di costruzione di interventi partecipati da una pluralità di attori. In special modo la coprogettazione, intesa come metodo per costruire azioni sociali condivise, ha iniziato ad avere sempre maggiore applicazione nonostante una scarsa chiarezza concettuale che ne impediva la piena applicazione superando errate consuetudini consolidatesi nel tempo.

Proprio su questo scollamento tra le pratiche reali e le opportunità offerte dalle normative vigenti è scaturito lo studio condotto da Percorsi di Secondo Welfare, il laboratorio di ricerca del Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, che ha analizzato la percezione da parte degli addetti ai lavori rispetto ai concetti chiave di coprogettazione coprogrammazione e alla loro reale operatività in risposta ai bisogni emergenti. L’indagine, che rappresenta il cuore pulsante del Sesto rapporto sul secondo welfare, ha fotografato il quadro nel quale la scelta di coprogettare viene spesso assunta come modalità elettiva di collaborazione tra pubblico e privato, senza tuttavia porre troppa attenzione a identificare con chiarezza i bisogni reali, e non solo presunti, di un territorio.

lI focus della ricerca

Il gruppo di ricercatori di Secondo Welfare ha coinvolto enti pubblici, del privato e del non profit e ha svolto la propria indagine su un campione selezionato di operatori attraverso 21 interviste semistrutturate e 4 focus group tenutisi tra maggio e giugno 2023, conducendo al contempo un’analisi semantica e documentale del vocabolario utilizzato dagli operatori del settore. Il risultato è un’ampia panoramica degli aspetti definitori, dei fattori critici e di quelli permissivi, ma anche dell’evoluzione futura delle pratiche di coprogettazione e coprogrammazione in Italia.

Le interviste e i focus group hanno evidenziato come la coprogettazione rappresenti la pratica collaborativa per eccellenza in contrapposizione al modello competitivo tipico delle logiche d’appalto, ma soprattutto quella in grado di rompere la relazione gerarchica tra pubblico e privato, superando una prospettiva che ha sempre visto il primo come committente e il secondo come semplice esecutore o prestatore di servizio.

Purtroppo però, dai dati raccolti dai ricercatori, non risulta esserci ancora una definizione univoca e condivisa della coprogettazione, bensì una visione generale e piuttosto generica. La ricerca mette infatti in luce come essa venga spesso confusa con pratiche contigue come la coproduzione o la coprogrammazione. Ed è soprattutto con quest’ultima che si assiste a una sovrapposizione degli strumenti e della modalità di lavoro. Quest’indeterminatezza definitoria sembra essere l’esito, secondo il campione interpellato, di pratiche ancora mescolate tra loro e di una normativa nazionale contenente ancora molte zone d’incertezza.

La continua confusione con la coprogrammazione

Nelle dichiarazioni delle persone intervistate si evince che gli interventi di amministrazione condivisa partono direttamente dalla coprogettazione senza passare prima dalla coprogrammazione, come invece prevederebbero il buon senso e come viene, soprattutto, indicato dalle linee guida del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dando così per scontato che si sappia già quali siano le esigenze reali e i problemi di un territorio. La coprogrammazione è infatti quel percorso finalizzato ad analizzare i bisogni e a individuare priorità e risposte pertinenti. È quindi un processo di esplorazione che non va a sostituire i classici piani di zona ma arricchisce l’analisi dei bisogni riconoscendo con maggior forza il ruolo dei tavoli di lavoro e delle agende collaborative con il Terzo settore. In poche parole, prima si coprogramma definendo insieme il quadro dei bisogni e degli interventi, dopodiché si coprogetta quella parte di azioni operative che sono state preventivamente coprogrammate.

I motivi per cui persiste questa sovrapposizione semantica e concettuale tra coprogrammazione e coprogettazione sono numerosi: tra tutti spicca la generale mancanza di tempo e di risorse economiche per condurre analisi serie sul territorio, oltre a consuetudini consolidatesi nel tempo che non hanno mai previsto questo genere di indagini. Ma è soprattutto la grande fatica che comporta la gestione delle diverse e complesse fasi della coprogrammazione a impedirne l’adozione.

Coprogrammazione: la bella addormentata

C’è da sottolineare che la chiarezza normativa sul tema della coprogrammazione è arrivata solo di recente con la pubblicazione delle linee guida ministeriali del 2021, che hanno finalmente fatto luce sull’impiego di procedure che siano coerenti con i precetti del Codice del Terzo Settore. Già in precedenza le linee guida dell’Anac del 2016 avevano introdotto il tema della coprogettazione e coprogrammazione, ma era risultato piuttosto complicato e rischioso per un ente del Terzo settore lanciarsi in un lavoro così gravoso, complesso e responsabilizzante come la coprogrammazione e la successiva coprogettazione. E alla fine si è sempre preferito l’affidamento dei servizi, considerato un sistema più sicuro e soprattutto più rodato.

Le linee guida ministeriali del 2021 hanno invece definito con chiarezza il perimetro della pratica della coprogrammazione articolandola in quattro fasi di lavoro e sottolineando il ruolo da protagonista del Terzo settore in questo nobile processo, che può ora essere intrapreso anche a seguito di uno o più stimoli proposti dagli attori del territorio, fornendo agli enti non profit una utilissima sponda per prendere parte alle fasi germinali di un progetto e indirizzarne la vocazione finale. E proprio quest’aspetto cruciale sembra sfuggire agli enti del Terzo settore. Insomma, se facessero sentire la propria voce alle amministrazioni pubbliche e se proponessero progetti rispondenti ai bisogni, dimostrandone la pertinenza, probabilmente avrebbero più voce in capitolo.

Ebbene, di tutto questo processo elaborativo preliminare non vi è quasi traccia nelle risposte del campione, e questo rappresenta un vero delitto dal momento che la programmazione è il vero tavolo di studio e di lavoro su cui il Terzo settore si può confrontare alla pari con la pubblica amministrazione, sottraendosi così alle logiche competitive tipiche degli affidamenti per appalto.

Un treno che sta passando

Il grandissimo pregio delle linee guide del 2021 è stato quello di ricollegare ai dettami del Codice del Terzo settore le tante criticità della programmazione emerse nel passato. Non solo, le linee guida hanno anche sciolto molti dubbi procedurali e ampliato anche il campo di intervento in armonia con l’art. 55 del Codice del Terzo settore, dove si fa riferimento non solo ai Comuni ma più in generale alle amministrazioni pubbliche, allargando così la platea degli interlocutori del Terzo settore anche alle aziende sanitarie, agli istituti scolastici, agli enti culturali, alle attività ricreative e sportive. In questo modo la funzione degli enti del Terzo settore non è più limitata ai tradizionali interventi progettati dagli assessorati alle politiche sociali, ma viene intrapreso un nuovo modo di programmare e progettare le differenti azioni sulla scorta di tutti i segnali che emergono dal territorio, i cui unici validi interpreti sono appunto gli enti del Terzo settore. Ancora piuttosto ignari, purtroppo, di questa ghiotta opportunità.

 

 

 

 

 

 

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