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Con armi spuntate contro la delocalizzazione

In attesa del varo del decreto legge Todde-Orlando, esaminiamo i punti nodali delle misure contro la delocalizzazione selvaggia, che prevedono sanzioni e blacklist per le imprese in procinto di chiudere o spostare l’attività all’estero. Ma lo strumento non convince affatto.

di Giuseppe Strangolo

È ancora una bozza, quella presentata dalla viceministra dello Sviluppo economico Alessandra Todde e dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Ma il documento è in attesa da molti giorni sul tavolo del premier Mario Draghi e dovrà presto passare al vaglio delle forze politiche della maggioranza, tutte. Perché il tema è estremamente sensibile e divisivo, e ci vorrà grande coesione per la sua approvazione finale. L’impianto del decreto legge relativo a “Misure urgenti in materia di tutela dell’insediamento dell’attività produttiva e di salvaguardia del perimetro occupazionale” riguarda quelle situazioni aziendali che interessano un numero di lavoratori superiore o uguale a “cinquanta/centocinquanta, il cui impatto occupazionale sul territorio viene considerato rilevante e necessita di un arco temporale adeguato per consentire il vaglio di compatibilità di tutti i possibili interventi di supporto”. Traducendo, le imprese che decidono di chiudere per riaprire in Paesi più attrattivi dal punto di vista fiscale e salariale avranno l’obbligo di comunicare questa decisione con sei mesi di anticipo a più attori istituzionali, motivando le ragioni della chiusura e indicando i tempi, i modi e il numero di addetti coinvolti nella procedura di cessazione dell’attività produttiva.

Gli obblighi: comunicare, motivare e proporre soluzioni

La comunicazione dovrà essere condivisa con il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, il Ministero dello Sviluppo economico, l’Agenzia nazionale per le politiche attive, la Regione in cui è ubicato il sito produttivo e tutte le rappresentanze sindacali aziendali. Dopodiché l’azienda ha il compito di preparare, entro i 90 giorni successivi alla comunicazione, un “Piano di mitigazione delle ricadute occupazionali ed economiche connesse alla chiusura” in modo tale da salvaguardare i livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi. Il piano proporrà quindi vari interventi quali la ricollocazione presso altra impresa o alcune misure di politica attiva del lavoro come i servizi di orientamento, l’assistenza alla ricollocazione, la formazione e la riqualificazione professionale, tutti finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego.

Occorre attendere l’approvazione

Il progetto può includere anche la cessione dell’azienda o di suoi rami ai lavoratori o alle cooperative costituite dagli stessi dipendenti. Oppure può riguardare la riconversione del sito produttivo, anche per finalità socioculturali a favore del territorio interessato. Per l’attuazione del piano di mitigazione l’impresa può avvalersi anche di soggetti specializzati in materia di gestione aziendale, ricerca e attrazione di investimenti, politiche finanziarie e fiscali e di progettazione nell’ambito dei programmi di finanziamento europei, nazionali o regionali. Il piano deve essere preventivamente presentato e poi approvato dalla Struttura per le Crisi d’Impresa del Ministero per lo sviluppo economico. E nel frattempo, ovviamente, l’azienda non può permettersi in alcun modo di avviare procedure di licenziamento collettivo.

Il sistema sanzionatorio

Qualora il piano di mitigazione non venga approvato dal Mise o l’impresa non lo presenti entro il termine stabilito, o addirittura proceda ai licenziamenti collettivi anzitempo, l’azienda è tenuta a pagare il contributo Aspi (50% del trattamento mensile iniziale per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni) in misura incrementata di dieci volte. E ovviamente non potrà accedere a contributi e fondi pubblici per un periodo di ben cinque anni. Il decreto prevede inoltre sanzioni pari al 2% del fatturato per le aziende che delocalizzano il sito produttivo nei 5 cinque anni successivi all’incasso di finanziamenti pubblici. Per le aziende che chiudono senza rispettare i dettami del decreto è prevista infine la creazione di una black list. Anche se, nell’ultimissima bozza pubblicata a fine agosto, di questa formula di disonore pubblico non v’è più traccia. Si tratta di norme sanzionatorie che, ovviamente, Confindustria giudica troppo punitive e che molto probabilmente troveranno un ridimensionamento in Consiglio dei ministri. Dove la maggioranza, a oggi, non è affatto compatta.

Copiatura della sfortunata legge Florange

A detta di tutti gli osservatori lo schema del decreto è chiaramente mutuato dalla promettente ma infelice “legge Florange”, adottata nel 2014 dal parlamento francese per contrastare la chiusura dell’acciaieria Arcelor-Mittal di Florange, nel Nord-Est del Paese. Vicenda protrattasi in una lunga e penosa vertenza e conclusasi malamente nel 2018 con la chiusura della linea dell’acciaio e la perdita di 629 posti di lavoro su un totale di 2.500 dipendenti. In molti sostengono che il punto debole del decreto che sta per approdare in Consiglio dei ministri sia da individuare nel fatto che l’azienda ha il dovere di cercare un nuovo acquirente, certo, ma non ha l’obbligo di trovarne uno effettivo. In sostanza, basta presentare un piano di mitigazione delle ricadute occupazionali e progettare un percorso di reindustrializzazione impegnandosi a cercare un potenziale acquirente. Ma se dopo sei mesi di ricerca non si trova nessuno, non succede nulla. E così, in poche parole, si può procedere con i licenziamenti. Inoltre lo spauracchio della penalizzazione del 2% del fatturato c’è soltanto nel caso in cui l’azienda non voglia nemmeno provare a indicare un’alternativa alla delocalizzazione. Insomma, la deterrenza di tutto il sistema sanzionatorio è piuttosto fiacca. E aggirarlo diventa molto facile per una multinazionale o un’azienda medio-grande. È chiaro che un decreto di questo tipo, se corrisponderà alla bozza di fine agosto e se non verrà ulteriormente svigorita dalle inevitabili pressioni confindustriali, rappresenta un ostacolo molto debole alle delocalizzazioni.

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“La nostra mission consiste nel dotare i lettori di un magazine in grado di decifrare il vasto mondo della gestione d’impresa grazie a contenuti d’eccezione e alla collaborazione con enti pubblici e privati.”

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