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2021: l’anno magnifico del vino italiano

Nicola Tinelli

Nel 2021 l’export di vino ha polverizzato tutti i record, ma c’è ancora molto da fare sul fronte delle competenze legate all’internazionalizzazione, come ci spiega Nicola Tinelli di Unione Italiana Vini.

di Franco Genovese

Il postpandemia porta bene al vino italiano, che stabilisce il suo record storico in termini di export. Il 2021 si è chiuso infatti in crescita del 12,4% in valore, per un corrispettivo di 7,1 miliardi di euro e una bilancia commerciale che segna un attivo di quasi 6,7 miliardi di euro. Un exploit apprezzabile soprattutto nelle produzioni Dop che, con gli spumanti (+25,3%) e soprattutto con il Prosecco (+32%), hanno performance notevolmente superiori rispetto alla media generale, pur rispettabile, del +15,8% in valore (dati dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly-Ismea 2022). Numeri eccezionali che fanno ben sperare per il futuro del vino italiano nel mondo, ma che occorrerà continuare a piantonare con grande attenzione, a partire dalle competenze manageriali riguardanti l’export.
Di tutto questo parliamo con Nicola Tinelli, coordinatore dell’Ufficio Politico di Unione Italiana Vini, l’associazione italiana nata nel 1895 e che rappresenta oggi 660 aziende italiane del vino, riunendo in esse più di 150mila viticoltori e l’85% dell’intero fatturato dell’export vinicolo.

Al netto della pandemia, dell’aumento dei carburanti e della crisi geopolitica, sembra che le performance dell’export di vino italiano siano molto incoraggianti, nonostante l’aspetto dimensionale delle aziende e la frammentazione dei produttori su un territorio medio non vastissimo. A che cosa è dovuto questo successo nell’export?
«Sicuramente ci sono due fattori che determinano quest’ottimo risultato, un fattore è maggiormente legato alla contingenza e l’altro è più strutturale. Il primo fattore è collegato al periodo postCovid, che noi chiamiamo “revenge spending”, una sorta di rivalsa dei consumi dopo i tempi cupi delle restrizioni domestiche. Il vino tricolore che durante la pandemia era stato inibito nella sua fruizione, ora ha visto ripartire i consumi in modo rapidissimo. Il secondo fattore, che è ormai strutturale, è che il consumo di vino italiano è cresciuto dal 2013 dai 3 ai 6,7 miliardi di euro di export del 2022. Con incrementi davvero singolari in Paesi che non sono affatto consumatori tradizionali di vino, come gli Stati Uniti, la Cina, il Canada, la Svizzera e anche una parte dell’Ue dove tradizionalmente non si consumava vino. Ebbene, è qui che il vino italiano è riuscito a intercettare un nuovo tipo di domanda».

Tra il Nutri-score e i tentativi di introduzione del bollino nero del “cancer plan” sembra che l’italianità alimentare sia oggi sotto un fuoco di fila continuo. Ma quello delle normative restrittive è un problema che periodicamente si ripresenta per l’export agroalimentare nostrano. Come se fosse questo il sintomo tipico del grande successo dei prodotti italiani all’estero. Insomma, l’eccellenza italiana dà un po’ fastidio…
«La campagna contro il mondo del vino e dell’agroalimentare italiano parte da lontano. È infatti da tempo che siamo oggetto di attacchi da parte di molte organizzazioni internazionali, e pertanto abbiamo sempre manifestato un certo allarme. Diciamo che negli ultimi due anni la pandemia ha un po’ distratto l’attenzione da questo problema e quindi chi era interessato a cavalcare questa battaglia ha potuto farsi avanti con maggior forza. Si tratta chiaramente di un attacco ai nostri modelli di consumo, ed è questo l’aspetto che ci fa più rabbia. Si cerca artatamente di confondere il consumo di vino con il suo abuso, forzando la comunicazione verso il grande pubblico in questo senso. Ora, è risaputo che la dieta mediterranea ha aspetti salutistici eccezionali e che la nostra cucina rappresenta un unicum di valore da emulare in tutto il mondo. Ecco allora che tocca proprio a noi, che siamo il Paese con più centenari insieme al Giappone, difendere un principio sacrosanto di benessere e di salute rappresentato dal nostro modello di consumo alimentare. Anche altri prodotti italiani, e sto parlando di vere eccellenze alimentari, sono al centro di discrediti continui da parte delle organizzazioni europee. È quindi evidente quello che sta accadendo. Siamo sotto attacco. Occorre giustamente contrastare l’abuso di alcool, ma guai a confonderlo con altre esigenze mercatiste».

Torniamo all’export. Come si affrontano le grandi criticità per accedere ai Paesi esteri?
«Devo dire innanzitutto che le politiche dell’Unione europea hanno aiutato moltissimo attraverso gli strumenti per la promozione sui mercati internazionali, che sono stati finanziati al 50% dalla Ue e il restante 50% dalle aziende stesse. Si parla quindi di 100 milioni all’anno, per un totale di 200 milioni di euro di investimento complessivo annuo. Sono risorse importanti che hanno incoraggiato in modo decisivo l’internazionalizzazione, e che vale la pena di mantenere anche per i prossimi anni».

Che cosa vi aspettate dal Pnrr?
«Ci aspettiamo interventi strutturali e orizzontali, non necessariamente dedicati alla filiera vitivinicola, vale a dire migliori infrastrutture, migliori reti, una maggiore digitalizzazione delle aziende. Per quanto riguarda noi nello specifico dell’industria vitivinicola, abbiamo molte attese rispetto alle misure destinate ai macchinari innovativi, alla logistica e all’energia solare da installare sugli stabilimenti enologici. Siamo quindi molto fiduciosi rispetto ai relativi bandi».

Pensa occorra uno stimolo al cambiamento della struttura patrimoniale delle aziende vitivinicole italiane? E che cosa fate in Uiv per incoraggiare questo sviluppo?
«Per incoraggiare la presenza sui mercati esteri abbiamo spinto il ministero dello Sviluppo economico ad attribuire dei criteri di priorità nella costruzione di Associazioni temporanee di impresa (Ati, ndr) mettendo insieme grandi e piccole imprese in modo tale da costituire consorzi volontari di durata programmata. Le Ati sono istituti molto interessanti, perché la grande azienda attira le altre e le fa crescere. In passato abbiamo supportato la costituzione di diverse Ati, e come fattore strutturale posso dire che negli ultimi anni stiamo assistendo a forme di aggregazione che possiamo definire “naturali” fra le imprese. Sto parlando di grandi aziende che sono cresciute molto sui mercati internazionali e che iniziano ad acquisire aziende più piccole anche in Regioni diverse. Si tratta di un fenomeno che sta da tempo avvenendo e che si manifesterà sempre più nei prossimi anni. Il grande che fa da guida ai piccoli. La dimensione tipica delle aziende italiane è ancora piuttosto minuta, basti pensare che nonostante siamo i più grandi esportatori al mondo di vino, tra le prime dieci aziende esportatrici nel mondo non ve n’è neanche una italiana».

Le aziende medio piccole solitamente non dispongono di manager sufficientemente preparati per intercettare i mercati emergenti. Che cosa si può fare?
«La parola d’ordine è “formazione”! Il settore dei vini è stato interessato da tanta innovazione, e ha già fatto moltissimo sul fronte della qualità tanto da essere premiato sul palcoscenico internazionale. Tuttavia c’è ancora molto da fare sul piano della managerialità. C’è un grande bisogno di export manager in questo momento, e la sfida è fornire più competenze alle imprese per consentire loro di affacciarsi al business estero. E su questo versante l’Ice ha lavorato molto bene, soprattutto riguardo ai bandi sui temporary export manager. Penso quindi che occorra lavorare molto sulla creazione di figure in grado di rispondere alla nuova complessità dei mercati internazionali. Non parlo solo del sapere bene le lingue, che è comunque un asset irrinunciabile, ma anche del saper gestire tutta la parte della logistica, della fornitura, della cura costante dell’interfaccia con le reti internazionali, soprattutto nei mercati emergenti. Fare export in Cina è completamente diverso dal farlo sui mercati americani. E ogni piccolo errore lo si paga a carissimo prezzo».



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