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Un ponte verso il futuro dei ragazzi disabili

Finita la scuola dell’obbligo, i ragazzi con disabilità psichica si ritrovano in un limbo. Le istituzioni non se ne occupano più. Ma c’è chi, sui territori, li prepara a costruirsi un futuro meno incerto. Ne parliamo con Ferdinanda Cargoni, presidente dell’associazione Il Colibrì di Roma.

di Marco Ehlardo

 

Come è nato Il Colibrì, e a quali bisogni voleva rispondere?
«Siamo un gruppo di educatori, impegnati da anni nelle scuole con i ragazzi con disabilità, soprattutto psichica. Col passare del tempo abbiamo rilevato che fino al quinto anno delle scuole superiori i ragazzi sono abbastanza seguiti. Ma al termine, per loro e per le loro famiglie, c’è il vuoto. I ragazzi non vengono aiutati a costruirsi un futuro e i genitori si trovano in grosse difficoltà, e spesso sono davvero disperati. Nel 2016 abbiamo allora fondato Il Colibrì per fare da ponte tra la fine della scuola e la costruzione di un impegno stabile per i ragazzi. Facciamo sia attività didattiche sia laboratoriali e ci appoggiamo a una rete di altre associazioni in grado, ad esempio, di offrire percorsi formativi».

Come gestite le vostre attività?
«
Siamo circa quaranta persone, tra soci, volontari e collaboratori. Ogni ragazzo seguito ha bisogno di un’equipe multidisciplinare. Riusciamo a far fronte alle necessità operative in maniera efficiente, ma il problema è sempre quello del reperimento delle risorse economiche. E su quello abbiamo scelto una modalità di finanziamento più partecipativa».

Quindi avete scelto forme di finanziamento privilegiate?
«È ovvio che anche a noi interessi accedere a finanziamenti pubblici. Il problema è che le istituzioni devono ancora imparare ad applicare il principio di sussidiarietà. Non hanno ancora compreso che c’è stato un cambiamento in questo settore e che le piccole organizzazioni, spesso, sono in grado di offrire servizi più efficienti. E soprattutto più efficaci. Invece investono su servizi pubblici che non sempre funzionano. Oppure finanziano enti molto grandi ma meno radicati sul territorio. C’è poca attenzione alle piccole realtà che davvero il territorio lo conoscono. E che ne conoscono i bisogni. Per cui, nel tempo, abbiamo costruito una rete di piccoli finanziatori, a partire dai genitori dei ragazzi che seguiamo, da piccole donazioni liberali e dal 5×1000. Questo ci consente di avere una base finanziaria limitata, sì, ma più sicura e costante nel tempo. E di programmare meglio le nostre attività. Poi, ovviamente, cerchiamo di partecipare ai bandi pubblici e delle fondazioni bancarie».

Le istituzioni sono completamente assenti dunque?
«No, non sempre, per fortuna. Abbiamo buoni rapporti con il I Municipio, dove operiamo. Dopodiché abbiamo vinto due bandi per l’assegnazione di strutture da parte della Regione Lazio che ci consentiranno di ampliare le nostre attività e il numero di ragazzi che possiamo seguire. Saremo sempre un ponte, ma saremo anche in grado di partecipare più efficacemente alla costruzione del futuro dei ragazzi. Siamo poi molto interessati alle future attività di coprogettazione con gli enti pubblici previste dalla nuova normativa per il Terzo settore. Quello potrebbe essere un punto di svolta, per noi e per tutte le Ets che lavorano sui territori. Perché consentirà di superare la logica dei bandi e di lavorare insieme, istituzioni e terzo settore, alla costruzione di progetti e attività sulla base dei reali bisogni delle persone».

A proposito delle modalità partecipative, che ruolo hanno i ragazzi nella progettazione delle vostre attività?
«
Un ruolo concreto e decisivo. Assieme ai loro genitori. Noi ci riuniamo con loro tre volte alla settimana, per valutare le attività e per decidere che cosa fare. E al termine votiamo tutti assieme. Ognuno ha lo stesso peso nelle decisioni, la presidente, gli operatori, i genitori e i ragazzi. E se c’è una progettazione da fare, raccogliamo sempre prima le loro opinioni e i loro desideri. È una metodologia che rende la progettazione più complessa, ma certamente più efficace».

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