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Non studio, non lavoro, non guardo la Tv…

Siamo alle soglie di un’emergenza sociale che le istituzioni stanno fronteggiando con miopia e con mezzi spesso inappropriati alla gravità della situazione. L’abbandono scolastico crea nuove povertà. E se salta la coesione sociale è a rischio la tenuta del sistema democratico.

di Alessandro Battaglia Parodi

Ci troviamo in un momento storico caratterizzato da un drammatico calo della frequenza scolastica e formativa, un fenomeno in atto già da tempo ma oggi fortemente incoraggiato dalla pandemia. I giovani sembrano essere i più colpiti, specie nel nostro Paese, che si posiziona al primo posto in Europa per il numero di soggetti che non sono né in formazione, né in un percorso d’istruzione e neppure lavorano, i cosiddetti Neet (Not engaged in education, employment or training).
Ne parliamo con Mauro Migliavacca, docente di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro all’Università di Genova e membro dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo che dal 2012 realizza annualmente il Rapporto Giovani, la più estesa ricerca disponibile nel nostro Paese sull’universo giovanile.

 In assenza di politiche adeguate non c’è il rischio di cronicizzare la condizione dei Neet e di creare nuovi poveri?
«Certamente sì. Nel corso degli ultimi quindici anni, le analisi sull’evoluzione della povertà in Italia hanno evidenziato come la quota di popolazione in povertà assoluta, sia progressivamente cresciuta. Nel rapporto sulla Povertà 2020 l’Istat indicava come fossero circa 4,6 milioni le persone in condizione di povertà assoluta (7,7% del totale, 8,4% nel 2018), corrispondenti a quasi 1,7 milioni famiglie (con una incidenza del 6,4% contro il 7,0% nel 2018). Nel 2019 si è ridotto per la prima volta il numero e la quota di famiglie in povertà assoluta pur restando su livelli decisamente elevati. Purtroppo, i primi dati sugli esiti economici della pandemia, già ci dicono come tale miglioramento sia stato rapidamente consumato, e come sia certo un aumento della quota di popolazione interessata a questi fenomeni. Si possono in questo senso identificare due fattori principali, che caratterizzano le dinamiche di povertà in Italia. Il primo fa riferimento alla perdurante frattura che divide, sotto molto aspetti, il Nord e il Sud del Paese, assegnando alle regioni meridionali livelli di povertà tra i più elevati dell’Unione Europea come segnalano Istat e Oecd, quasi il 9% delle famiglie in povertà assoluta abitano nel Meridione, mentre al Nord sono meno del 6%. A questa storica frattura si aggiungono nuove differenze che stanno modificando lo spettro territoriale delle diseguaglianze, introducendo significative differenze anche tra le aree a Est piuttosto che a Ovest della penisola.

E il secondo fattore?
«Il secondo fattore fa invece riferimento alla condizione delle giovani generazioni e ai tassi di povertà assoluta dei giovani, aumentati a seguito della crisi del 2008 e che permangono elevati e stanno esplodendo in questa fase pandemica. I minori in povertà assoluta sono secondo Istat circa 1 milione 137 mila, con un’incidenza del 11,45. Contemporaneamente Eurostat rileva come nel 2020 in Italia, la quota di giovani tra i 18 e i 24 anni a rischio povertà ed esclusione sociale fossero il 31,1% contro una media dei Paesi dell’area euro, di poco superiore al 27%. A questo aggiungiamo il dato relativo all’aumento dei Neet, ovvero quei giovani che non studiano e non lavorano, e che nel nostro Paese rappresentano con la pandemia in sono drasticamente aumentatati, come rileva Eurostat passando dal 22,1% del 2019 al 23,3% nel 2020. È il dato peggiore in Europa con quasi 10 punti oltre la media dell’Ue a 27 (13,7%). Parliamo di 2,1 milioni di giovani, in aumento di 97mila unità sul 2019. Alcuni interventi ci sono stati ma sono ancora residuali rispetto agli investimenti fatti in altri Paesi Eu, dove il futuro delle giovani generazioni è maggiormente al centro del dibattito e delle politiche».

L’incertezza lavorativa e il peggioramento della situazione economica portano anche a profonde disuguaglianze nei percorsi formativi e professionali. Quali sono i pericoli di tutto questo?
«La penalizzazione che grava sulle giovani generazioni emerge osservando il contesto europeo attraverso i dati elaborati da Eurostat. Nel corso degli ultimi decenni la quota di giovani esclusi dal mercato del lavoro è aumentata per poi decrescere soprattutto in alcuni contesti, tra i quali in particolare i Paesi del Sud Europa. In Italia in particolare la disoccupazione giovanile nella fascia 20-29 anni ha cominciato ad aumentare già prima della crisi, a metà degli anni 2000, per peggiorare progressivamente per oltre un decennio. Solo la Spagna e la Grecia hanno avuto un esito peggiore di quello Italiano. A partire dalla seconda decade degli anni 2000 si è realizzata la preoccupante inversione tra i tassi di crescita dell’occupazione giovanile e quelli dell’occupazione adulta. In una fase del ciclo di vita in cui si attenderebbe una progressiva riduzione dell’occupazione (in concomitanza con l’avvicinarsi del pensionamento) si è realizzata una crescita. A questa crescita si è però associata una riduzione dell’occupazione giovanile, quando invece ci si sarebbe aspettati un incremento. Nel 2018 il tasso di occupazione della classe 25-29 era in Italia del 54,6% (a fronte di una media EU28 del 75%), mentre il tasso di occupazione della classe 50-59 era in Italia del 64,7% (a fronte di una media EU28 del 71,8%). Se osserviamo l’evoluzione del dato italiano a partire dagli anni Novanta emerge in maniera evidente la gravità dello squilibrio generazionale e il processo di inversione. Il dato interessa principalmente gli uomini adulti ma anche donne che rientrano nel mercato del lavoro, spesso dopo una lunga inattività o una più o meno lunga parentesi di lavoro sommerso. Due considerazioni tra tutte. La prima fa riferimento a una attesa miglior condizione di chi è in possesso di un diploma di scuola superiore, anche rispetto a chi ha possiede un titolo universitario. Questa miglior condizione potrebbe spiegare sia la scelta di molti giovani laureati di cercare lavoro all’estero, non trovando buone opportunità in Italia, sia la scelta di molti giovani, di escludersi dal mercato del lavoro in attesa di migliori opportunità, o di interrompere gli studi non vedendo particolari prospettive. La seconda considerazione fa invece riferimento al pesante esito che la crisi ha avuto sul contesto italiano e che la pandemia ha fatto esplodere in senso negativo. A differenza di altri Paesi, non si è riusciti a fare leva sulla forza lavoro giovane e con alte credenziali educative».

Stiamo andando sempre più verso una “scuola di classe”?
«Non so se stiamo andando veramente verso una “scuola di classe”, vero è che le opportunità si stanno polarizzando e, in un certo verso per le classi medioalte, stiamo sperimentando un processo tipico della società americana, dove il percorso scolastico è sempre fortemente correlato con gli indicatori di diseguaglianza. Nel nostro Paese la questione è più complessa, ma nelle grandi città qualcosa di simile a tratti si intravede. Il pericolo è il rischio di corto circuito sociale».

I grandi progetti volti a favorire l’occupazione giovanile come il programma “Garanzia giovani”, avviato nel 2014, hanno ancora senso? Perché non decollano mai queste iniziative?
«L’Europa ha investito molti soldi e programmi come Garanzia Giovani hanno avuto un grande successo, ma forse non Italia, al contrario di altri Paesi. Il programma di finanziamento Next Generation Eu, le nuove prospettive di rinforzo del programma Garanzia Giovani e le raccomandazioni legate alla formazione professionale vanno in questo senso, ma serve uno sforzo maggiore. In Italia, in particolare, serve un investimento culturale che faccia comprendere a giovani e famiglie come, ad esempio, la formazione tecnica e professionale non sia una scelta di serie B ma un’opportunità reale. Vanno risolti i nodi legati agli abbandoni scolastici e le forti differenze territoriali. Anche in questo caso la pandemia ha colpito durissimo ed è stato evidente come la scuola non sia mai stata una priorità al contrario di altri Paesi. Gli esiti nefasti delle prolungate chiusure della scuola, e i divari territoriali e non solo, che hanno coinvolto le famiglie nella gestione spesso sovrapposta di Smart working e Dad, ad esempio, saranno purtroppo evidente tra anni, quando anche l’ombra della pandemia sarà svanita. Sulla scuola, in particolare, gli esiti hanno un’onda che sappiamo essere molto lunga, e che potrà essere realmente visibile solo quando la pandemia sarà probabilmente un evento lontano. Per questo occorre agire subito per evitare di perdere pezzi nel futuro e di futuro. È fondamentale mantenere l’attenzione su quanto sta accadendo, cercando di ridurre il più possibile i danni sociali, e non solo quelli economici, causati dalla pandemia».

Siamo orami vicini allo sblocco dei licenziamenti e lo spettro è quello delle nuove povertà e della sostanziale tenuta sociale. Che cosa non ha funzionato nelle politiche attive secondo lei?
«Con le politiche attive si tocca un altro tema chiave che, soprattutto in questo periodo, e nei mesi che verranno, interesserà tutti coloro che avendo perso il lavoro a seguito della pandemia dovranno rientrare nel mercato del lavoro. Ricordiamo che i lavoratori autonomi e i dipendenti con contratti a tempo determinato sono due tra le categorie più colpite più. Questi ultimi in particolare hanno visto nella prima fase della pandemia una perdita di più di un milione di posti di lavoro tra il secondo e terzo trimestre 2020. Le forzate chiusure hanno colpito i servizi domestici, il settore alberghiero e quello della ristorazione. Le professioni coinvolte in questi settori, insieme a quelle a bassa qualifica, quelle del commercio e quelle dei servizi sono quelle maggiormente coinvolte nella perdita di lavoro».

E sul piano delle politiche passive è stato davvero fatto tutto il possibile?
«Credo che l’introduzione del Reddito di Cittadinanza abbia rappresentato, seppur con grave ritardo, un passaggio decisamente importante nel contrastare il dilagare delle vecchie e nuove forme di povertà. L’esperienza maturata con Reddito di inclusione, e le analisi che ne sono seguite, hanno messo in luce come sia fondamentale agire supportando il reddito delle persone e delle famiglie in difficoltà economiche per poter dare risposte efficienti a queste problematiche. Al tempo stesso è fondamentale monitorare puntualmente gli interventi per verificarne l’efficacia e l’efficienza. Il rifinanziamento di Garanzia giovani e il programma di finanziamento Next Generation Eu, unite al piano strutturale connesso al Recovery Plan, rappresentano delle grandi opportunità, che non vanno sprecate, e gestite con attenzione, guardano all’efficienza e all’efficacia degli interventi».

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