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Il Pnrr e la svolta green dell’Italia

Economia green, circolare ed equa, il ciclo di vita dei rifiuti, capitoli fondamentali del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ne parliamo con Rossella Muroni, vicepresidente Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici a Montecitorio, ed ex Presidente di Legambiente.

La Missione 2 del Piano Nazionale di ripresa e resilienza è dedicata alla “Rivoluzione verde e Transizione Ecologica” e prevede un ammontare di risorse pari a 69,8 miliardi di euro. Economia green, circolare ed equa, il ciclo di vita dei rifiuti, decarbonizzazione dell’economia, innovazione e reti intelligenti. Ne parliamo con Rossella Muroni, ecologista, già presidente nazionale di Legambiente, attualmente vicepresidente della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici di Montecitorio, deputata della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali a esse correlati e della Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza, iscritta al Gruppo Misto componente FacciamoECO – Federazione dei Verdi.

Il progetto è ambizioso e va consegnato a Bruxelles entro il 30 aprile. A che punto siamo?

«Siamo agli ultimi ostacoli prima dell’arrivo: il governo sta riscrivendo la proposta del Piano nazionale di ripresa e resilienza che aveva ereditato dal precedente esecutivo, il nuovo Pnrr tornerà per un passaggio molto rapido in Parlamento prima dell’invio definitivo a Bruxelles. Ovviamente non ci nascondiamo che il Parlamento non avrà margine per incidere. Le Camere si erano espresse nelle scorse settimane facendo una serie di richieste al governo – purtroppo anche molto discutibili e di parte come quella del Ponte sulla Stretto di Messina – ma avendo come documento di riferimento la vecchia proposta di Pnrr».

La transizione ecologica sarà la base del nuovo modello economico e sociale di sviluppo su scala globale, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Per avviarla sarà necessario, in primo luogo, ridurre drasticamente le emissioni di gas climaalteranti. Quali pensa che siano le soluzioni più efficaci?

«Per uno sviluppo davvero sostenibile non ci sono alternative: bisogna puntare su un’economia green e circolare, equa, inclusiva e che non compromette il futuro. Non possiamo che iniziare intervenendo sui settori più inquinanti, come la produzione di energia, la climatizzazione degli edifici, i trasporti, l’agricoltura intensiva. Ecco perché è così importante la transizione energetica. Se non acceleriamo su questo fronte puntando davvero su fonti pulite, efficienza, sistemi di accumulo, innovazione e reti intelligenti non riusciremo ad abbattere le emissioni di energia e settori produttivi, e quindi a raggiungere la decarbonizzazione dell’economia. Insieme alla transizione energetica bisogna promuovere anche il passaggio dal modello economico lineare a quello circolare. E bisogna realizzare questi processi stando bene attenti ad accompagnare imprese e cittadini che saranno maggiormente coinvolti da questa trasformazione e alla giustizia sociale».

Una delle componenti del Piano, sulle quali pare che l’Italia mostri un buon punto di partenza, è quella del ciclo dei rifiuti, che potrebbe permetterci di diventare maggiormente autosufficienti dal punto di vista dell’energia, scommettendo sulla rinuncia a materie prime di cui il nostro Paese è carente. Condivide questa visione? E che cosa manca ancora per raggiungere questo obiettivo?

«Anziché continuare a consumare risorse, stressare ecosistemi e a produrre rifiuti ai livelli attuali bisogna puntare su un modello green, innovativo e circolare, in cui i prodotti hanno un ciclo di vita lungo, si riutilizzano, sono progettati per durare e, quando non si possono più riusare, si riciclano i materiali di cui sono composti. È anche quello che ci chiede l’Europa con la direttiva sulla plastica monouso, con il Piano d’azione per l’economia circolare, con il pacchetto economia circolare, con il Green Deal e con l’obiettivo della neutralità climatica al 2050. Su questo fronte il Pnrr dovrebbe accelerare e, dal mio punto di vista, è sin troppo timido. Come ci ricorda la Fondazione Symbola con il rapporto L’Italia in 10 selfie, già oggi siamo il Paese con la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti: vantiamo il 79,3% di rifiuti avviati al riutilizzo contro la media europea del 39,2%. Ma siamo anche il Paese in cui sono serviti 8 anni, dal 2013 al febbraio 2021, per emanare cinque decreti end of waste (i decreti che consentono a un rifiuto di diventare materia prima seconda), che sono fondamentali per l’economia circolare, perché significa creare filiere produttive territoriali e innovative. Se solo riuscissimo a semplificare gli iter autorizzativi, rendendo al contempo i controlli più rapidi ed efficaci, potremmo davvero superare gli ostacoli non tecnologici e liberare in piano le potenzialità di questo fronte strategico».

Una specifica linea di azione è rivolta allo sviluppo della mobilità sostenibile attraverso il potenziamento delle infrastrutture per il trasporto rapido di massa e delle ciclovie e a un imponente rinnovamento del parco circolante di mezzi per il trasporto pubblico locale. Come pensa che potrebbero essere ridisegnate le nostre città e la nostra qualità della vita?

«La proposta di Pnrr, almeno quella vecchia che il Parlamento ha potuto esaminare, è sbilanciata più sulle tratte ad alta velocità fuori delle aree urbane che sulla mobilità sostenibile collettiva e pubblica nelle città. Per far muovere liberamente i cittadini e respirare le città, l’Italia dovrebbe puntare su trasporto pubblico moderno, puntuale e a emissioni zero, sulla realizzazione di spazi esclusivi e sicuri per chi si sposta in bici o sui mezzi della micromobilità elettrica, sulla diffusione delle colonnine di ricarica e delle auto elettriche. Sul fronte della mobilità extraurbana gli investimenti dovrebbero andare alla cura del ferro per i pendolari e per le merci e per portare alta velocità e doppi binari anche al Sud. Importante anche elettrificare le banchine dei porti».

Il dissesto idrogeologico rappresenta da molti anni un nodo importante per l’Italia. Gli eventi sismici e metereologici hanno evidenziato la fragilità del nostro territorio e anche, oserei dire, la scarsa cura con la quale sono stati costruiti edifici e pensati piani urbanistici. Il Pnrr può rappresentare un’occasione?

«L’Italia è un Paese a forte rischio idrogeologico, dove avvengono i due terzi delle frane censite a livello europeo e dove una superficie grande quanto Lazio e Abruzzo insieme è a medio o alto rischio inondazione. Che affronta il rischio, ulteriormente aggravato dalla crisi climatica in atto, come fosse un’emergenza imprevedibile. Anziché continuare a spendere 3,5 miliardi l’anno in media per i danni bisogna cambiare radicalmente approccio, iniziando a spendere meno e meglio grazie alla prevenzione. Un cambiamento strategico che garantisce ricadute positive su territorio e occupazione, di cui possono essere protagonisti i nostri giovani. Come evidenziato da Legambiente, infatti, 1 euro speso in prevenzione fa risparmiare fino a 100 euro in riparazione dei danni. Ecco perché noi deputati di FacciamoECO proponiamo per il Recovery Plan un Servizio Civile Ambientale come un percorso formativo e professionalizzante per giovani finalizzato alla manutenzione del territorio. Un servizio adeguatamente retribuito e declinato in attività coerenti con il Piano Nazionale per l’Adattamento al Cambiamento Climatico, quali la piantumazione di alberi, il rimboschimento di crinali e la messa in sicurezza del territorio. Con vantaggi in termini di assorbimento dell’anidride carbonica e delle acque piovane, stabilizzazione del suolo e mitigazione delle isole di calore. Un servizio per il bene comune che aiuterebbe anche a diffondere una cultura della prevenzione. Una misura con cui vinceremmo tutti: giovani, clima e territorio».

Come vicepresidente della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici alla Camera dei deputati, quale valutazione complessiva può dare del lavoro svolto finora sul Pnrr?

«Ogni Commissione ha dato un parere di cui ha tenuto conto la relazione finale della Commissione Bilancio. Ne è uscito un patchwork di difficile comprensione, ma soprattutto di dubbia utilità visto che, come dicevo, ha riguardato un Piano di ripresa e resilienza vecchio. Per il rapidissimo passaggio che farà la versione aggiornata del Plan prima del 30 aprile, spero ci sia il tempo di lavorare per aiutare l’esecutivo a scrivere una versione finale che investa in maniera innovativa sui fronti sociale, ambientale e digitale, anziché chiedere di inserire una collezione di desiderata di parte che non rispettano le linee guida per il Recovery fornite dall’Ue. Ma purtroppo, in particolare per i tempi, non sono affatto ottimista».

Se dovessi chiederle che cosa manca, tra le certamente tante cose, che cosa mi risponderebbe?

«Oltre alla partecipazione, nel Pnrr mancano il coraggio, la coerenza e la visione per realizzare davvero la transizione ecologica. Solo un esempio: l’Italia avrà il coraggio di eliminare i 19 miliardi di sussidi pubblici che ogni anno dà alle attività inquinanti? O di stabilire una data dopo la quale non si potranno più vendere macchine a combustione interna come stanno facendo gli altri Paesi europei? Perché è chiaro che se continuiamo a finanziare i fossili la transizione non la faremo».

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